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Creme solari, occhio all’uso e al fai da te

Creme solari, occhio all’uso e al fai da te

Il fatto della settimana A dispetto delle etichette, non esiste la protezione totale dai raggi ultravioletti. Ma sono indispensabili e vanno usate bene

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 26 luglio 2018

Nel 1903, Niels Ryberg Finsen vinse il premio Nobel in medicina grazie alla scoperta della fototerapia come trattamento efficace nella cura di alcune malattie infettive. La scoperta che alcune di queste malattie, come il lupus e il rachitismo, erano prodotte per mancanza di vitamina D e che tale vitamina veniva assorbita dal corpo grazie al sole, fece sì che i medici raccomandassero per la prima volta l’esposizione solare. Così agli inizi del Novecento si iniziò a parlare dei benefici dei bagni sole, di cui troviamo un curioso esempio nell’esperienza del Monte Verità di Ascona, uno dei primi luoghi in Europa dove i figli delle classi nobili e agiate, in fuga dalle città, iniziarono a praticare yoga, nudismo e vegetarianesimo come attenzione verso il corpo e il benessere. Si passò così da una cultura che vedeva nella pelle bianca un segno distintivo dell’upper class, che a differenza delle classi lavoratrici non era costretta a stare tutto il giorno nei campi a lavorare con la spiacevole conseguenza della pelle scurita dal sole, ad una cultura in cui la pelle dorata è sinonimo di benessere e bellezza. Una ventina di anni più tardi, nel 1923, Coco Chanel, di ritorno a Parigi da una vacanza nella soleggiata Juan-Les-Pins, sfoggiò il suo colorito dorato dal sole lanciando la nuova moda.

NEL 1985 UN SATELLITE DELLA NASA scoprì un buco nel prezioso strato di ozono che risiede nella stratosfera, uno degli strati dell’atmosfera che circonda la terra, a poche decine di kilometri di altitudine. La scoperta era molto preoccupante, l’ozono infatti protegge le forme di vita, compreso l’uomo, dai raggi ultravioletti del sole. La causa della diminuzione dell’ozono venne individuata nei clorofluorocarburi (o Cfc): gas composti di cloro, fluoro e carbonio, usati per le bombolette spray, nei circuiti refrigeranti dei frigoriferi e dei condizionatori d’aria e come schiumogeni per la fabbricazione di materiali come il polistirolo espanso. Nel 1989 entrò in vigore il protocollo di Montreal, ratificato inizialmente da 46 Stati a cui se ne aggiunsero gli altri 150, con il quale i firmatari si impegnavano nella drastica riduzione nell’utilizzo dei Cfc. Con il senno di poi, possiamo dire che fu uno dei pochi casi in cui l’umanità sia riuscita a individuare un problema causato dalle attività umane sulla terra indicandone poco dopo la soluzione e mettendola anche in pratica con buoni risultati.

L’EPISODIO, RIMBALZATO SU TUTTI I MEDIA dell’epoca, ha forse contribuito alla crescita del discorso intorno alle precauzioni da prendere nell’esposizione solare, in particolare nella protezione dai raggi Uvb, quelli che causano gli eritemi, ustioni e scottature, e dagli Uva, causa di melanomi. Giovanni Leone, direttore del servizio di Fotodermatologia presso l’Istituto Dermatologico San Gallicano di Roma, interrogato sul sito della Fondazione Veronesi ne parla così: «Da 10-15 anni le aziende serie hanno dato spazio alla protezione anti-Uva, raggi che non danno sensazione di scottatura, permettono di stare molte ore al sole senza percepire il danno. I patiti della tintarella artificiale le conoscono bene, poiché sono le radiazioni delle lampade solari (che emettono dosi di Uva fino a 12 volte quelle del sole, ndr). Provocano invecchiamento cutaneo, rughe, macchie e si studiano ipotesi di un legame con il melanoma».

UNA RICERCA PUBBLICATA SU SCIENCE nel 2015 mette in luce il rischio di melanoma dovuto all’esposizione solare che modificherebbe il Dna della pelle anche ore dopo l’esposizione stessa. In generale, i raggi ultravioletti possono causare danni alla pelle, agli occhi e in generale colpire l’intero organismo. Le precauzioni più importanti, come indossare sempre cappello e occhiali da sole, non esporsi nelle ore centrali della giornata, fare attenzione anche sotto l’ombrellone o in giornate con qualche nuvola perché i raggi solari non ne vengono totalmente schermati, evitare di esporre ai raggi diretti i bambini nei primi sei mesi di vita, sono ormai ben note. Il sito del ministero della Salute le elenca con estrema chiarezza, anche se nonostante tutto la comunicazione non sembra mai abbastanza. Secondo una recente ricerca, infatti, in Italia sette persone su dieci si espongono ai raggi del sole anche nelle ore più calde della giornata, e altrettanti considerano la crema solare un optional.

AL CONTRARIO DI QUESTA ABITUDINE, una delle precauzioni che tutti gli specialisti consigliano, senza soluzione di continuità, è proprio l’uso delle creme solari. La Comunità europea ha introdotto l’obbligo di indicare sulle confezioni il Spf, cioè il fattore di protezione contro gli Uvb, attraverso un indice numerico fino a un massimo di 50. Le fasce di Spf sono 2-10 bassa; 15-25 media; 30-50 alta; 50+ molto alta. Dal 2009 l’Emea ha stabilito che la dicitura «schermo totale» o «protezione totale» è da considerarsi falsa e fuorviante perché non esiste alcun preparato dermatologico in grado di assicurare tale effetto. Diverse ricerche hanno messo in guardia oltre che agli Uvb anche nei confronti dei raggi Uva, che sarebbero la causa dell’invecchiamento (fotoaging) e del melanoma cutaneo. La valutazione della protezione verso i raggi Uva è più recente rispetto a quella degli Uvb. Cosmetics Europe (ex Colipa), l’associazione europea dei produttori di cosmetici, molto presente e autorevole in questi interventi, ha richiesto che il potere filtrante nell’Uva in un prodotto solare sia almeno un terzo del valore del Spf in etichetta, il quale si riferisce come dicevamo solo alla capacità protettiva nell’Uvb.

È SEMPRE MEGLIO IN OGNI CASO scegliere creme che, accanto al filtro Uvb indicato sulla confezione, riportino anche l’indicazione di protezione Uva. In tutti i casi, attenzione: la protezione più alta non significa che si può stare più a lungo sotto il sole, sono indicatori che variano da pelle a pelle. In generale emerge un altro aspetto importante: si è stimato che nelle condizioni di uso che ne fanno i consumatori i filtri proteggano al 30 per cento del valore Spf dichiarato in etichetta. Il problema maggiore è che se ne usa poca quantità e poco spesso. Andrebbero applicati infatti circa 36 grammi di crema, ovvero sei cucchiaini da the: queste sono le condizioni usate nei test.

MA COME RICONOSCERE UNA BUONA CREMA SOLARE, che sia efficace e anche sostenibile? Tutti gli esperti con cui abbiamo parlato sconsigliano fortemente le creme solari fai da te. A differenza di altri prodotti cosmetici, i filtri solari che si ottengono in laboratorio sono gli unici che possono garantire una protezione efficace. Tra questi si deve fare una distinzione, tra filtri chimici e filtri fisici. I filtri fisici sono pigmenti opachi alla radiazione luminosa e riflettono e/o diffondono la luce ultravioletta e la radiazione visibile. In altre parole, formano una pellicola sulla pelle impermeabile ai raggi ultravioletti, che fino a poco tempo era evidente allo sguardo. Abbiamo tutti ben presente le creme che creano uno strato bianco sulla pelle, di difficile assorbimento. Per evitare questo fenomeno, sgradito ai consumatori, i produttori si sono dati da fare e hanno elaborato le stesse molecole, ma molto più piccole, cioè nano, così da renderle invisibili e più facilmente spalmabili. Le molecole più usate come filtri fisici sono il biossido di titanio e l’ossido di zinco. I filtri chimici invece sono sostanze di sintesi che assorbono selettivamente i raggi ultravioletti. Un tema complesso, insomma, che ancora una volta ci interroga sulle nostre abitudini e sul nostro rapporto con l’ambiente.

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