Sylvester Stallone ha sempre saputo cosa faceva. E perché. Anche quando magari i risultati non erano all’altezza delle sue aspettative di regista e interprete. All’altezza di Rocky IV, il capitolo più fustigato della saga, l’attore e regista era considerato alla stregua di un megafono reaganiano. Lui, invece, guardava già avanti. Perché dietro al guantone a stelle e strisce che si scontra come un meteorite nello spazio profondo della guerra fredda con quello della falce e martello, c’era un cineasta che si attrezzava per il futuro.

ALL’INIZIO del film Rocky e Apollo, quest’ultimo (lo sappiamo ora…) il deus ex machina di tutta la saga, entrano in palestra chiacchierando come se nulla fosse accaduto (Sly assumeva pienamente l’identità seriale del suo eteronimo), commentando i fatti di Rocky III. Il film, Rocky IV, inizia(va) su un tono confessionale (al passato), intimo. Ed è quello il nucleo che contiene- già – in nuce i futuri Creed e Creed II. Non a caso sui titoli di coda, dopo un film che dura 90 minuti scarsi, l’intera storia del conflitto Balbao-Drago è riassunta per immagini in bianco e nero, come se Rocky IV avesse immediatamente saltato il fossato della storia con la S maiuscola per essere consegnato ai trovatori e ai cantori delle gesta degli eroi. Per Stallone, ed è questa la differenza, gli eroi non sono sempre giovani e belli, ma sono senz’altro di estrazione operaia. Non a caso, tornato nelle strade dalle quali proviene, Rocky riprende a vivere nel suo quartiere a Philadelphia e con gli occhi sempre ad altezza di strada, osserva il mondo che cambia intorno a lui.

In questo senso non è azzardato affermare che Stallone non solo è un autore nel senso proprio della politica degli autori, ma anche il cineasta statunitense che con maggiore inventiva ha dato – letteralmente – corpo a una mitologia coerente; di matrice working class nella quale Bruce Lee e John Wayne diventano icone sottoproletarie alla stregua di Rocky Balboa e Rambo. Nel caso di Stallone, i suoi eteronomi più celebrati sono il frutto di una mitopoiesi che s’incarna in un corpo iconico come la camminata di John Wayne, come i passi di John Travolta sulla pista o Marlon Brando appoggiato alla sua moto. Ed è su questo corpo – che diventa voce e gesto cinematografico – che Stallone ha dato vita a una vera e propria trasmissione di sé stesso, incarnandosi nell’uomo che lo ha creato: Apollo Creed. Nel regno del MAGA, Rocky diventa Creed. L’importanza politica di questo gesto non può essere sottolineata abbastanza. E fa tutta la grandezza di questo magnifico autunno stalloniano. Rocky si fa letteralmente da parte per cedere il ring – la scena – al figlio di Creed.

BISOGNA osservare il modo come entra in scena Rocky all’inizio del film, per comprendere come l’asse mitologico della saga sia stato letteralmente rovesciato. Non si tratta solo di giocare nostalgicamente con il narcisismo dell’età che avanza, ma di creare un nuovo spazio politico e conseguentemente capire come gestirlo. Il controcampo perfetto è rappresentato dall’autunno amaro di Ivan Drago, ex eroe del popolo caduto in disgrazia, del quale Rocky afferma che gli ha spezzato cose dentro che non sono mai guarite. Nello spostare il confronto della guerra fredda a una battaglia per il diritto a essere riconosciuto come figlio e padre (nel caso di Drago) e per la trasmissione (black lives matter, nel caso della linea genealogica Balboa-Creed) si gioca tutta l’urgenza e la disarmante bellezza di Creed II. Stallone, che ha affidato la regia a Steven Caple Jr. (autore di The Land e della miniserie Rapture), diventa il padre che avrebbe voluto essere (la perdita di Sage è una ferita aperta), ed è attraverso questo complesso insieme di fattori che riesce a offrire un’immagine credibile delle lacerazioni di un paese in cerca di un new deal per ripartire.

Anche Stallone, come i Rolling Stones, ha il tempo dalla sua parte. E in questo senso, la saga di Rocky (e quella di Rambo) sono davvero il racconto del carsismo del tempo nel corpo e – soprattutto – nell’immagine di un attore e regista che ha saputo fondere l’utopia amara di Frank Capra con il piacere schietto del racconto di Roger Corman, inventando una mitologia che ha sempre riflesso criticamente la storia. E in questo senso, piaccia o meno, Sylvester Stallone è un vero cineasta politico.