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Covid, Netanyahu più debole si piega al no dei ristoratori

Covid, Netanyahu più debole si piega al no dei ristoratori

Israele Il premier ha varato misure, peraltro insufficienti, per combattere il contagio in forte aumento ma si è trovato di fronte al rifiuto secco della chiusura da parte dei proprietari di ristoranti e pub. E i sondaggi ora lo vedono in affanno.

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 18 luglio 2020
Michele GiorgioGERUSALEMME

L’emergenza coronavirus sta facendo emergere un Benyamin Netanyahu oltremodo debole, l’opposto del leader cinico e determinato in politica interna ed estera e contro i palestinesi. Il premier israeliano, già apparso in diverse occasioni indeciso su come rispondere alla seconda ondata del virus, ieri ha chinato il capo di fronte alla rivolta dei misadanim, i ristoratori, pronti alla disobbedienza civile in risposta alle misure annunciate giovedì sera dal governo per contenere la diffusione del contagio che in Israele è salito a numeri record.

Appena sono stati informati che avrebbero dovuto chiudere i loro locali, da ieri pomeriggio alle 17 fino a domani mattina, e lavorare solo con le consegne a domicilio e il takeaway, i misadanim hanno replicato con un secco no. «Terremo aperto ad oltranza, contro il governo, contro l’ordine di chiusura», hanno scritto sui social raccogliendo l’approvazione di migliaia di persone.

Netanyahu e il ministro della difesa e principale alleato del primo ministro, Benny Gantz, poco dopo hanno pubblicato un comunicato in cui permettono ai ristoranti (e ai pub) di restare aperti fino a martedì mattina. Questo permetterà di smaltire, almeno in parte, le scorte durante il weekend ma non è escluso che il governo riveda completamente la misura restrittiva che pure riguarda una delle ragioni principali di tanti assembramenti serali, specie a Tel Aviv.

E dopo la rivolta dei ristoratori potrebbe scattare la protesta degli albergatori e degli operatori turistici, tra i più in affanno, che chiedono aiuti concreti. Nelle zone ebraica e palestinese di Gerusalemme ci sono da mesi 17 mila stanze di hotel senza più turisti e pellegrini stranieri. Il crollo del turismo ha piegato anche Eilat sul Mar Rosso e Nazareth in Galilea.

L’emergenza sanitaria intanto si aggrava e richiede azioni rapide ed incisive per abbassare la curva dei contagi. Ieri in Israele si sono avuti altri 1400 casi positivi, giovedì 1819, con una percentuale del 6,7% rispetto al numero di tamponi. I decessi dall’inizio della pandemia sono saliti a 387 ed i malati gravi 213.

Nell’ultima settimana i luoghi più colpiti dal contagio sono stati Gerusalemme (1402 nuovi casi), la cittadina popolata da religiosi ortodossi di Bnei Brak (793), Tel Aviv (525) ed Ashdod con 309 casi. Medici ed esperti chiedono da settimane misure più drastiche, ben oltre il divieto approvato l’altra sera delle riunioni con oltre dieci persone negli spazi pubblici e con oltre 20 all’aperto, delle chiusure nel weekend ad eccezione di supermercati e farmacie e di altre restrizioni ritenute marginali. Le loro posizioni cozzano con quelle di alcuni ministri, alfieri della protezione a ogni costo dell’economia, che si battono contro l’ipotesi di un nuovo lockdown, anche solo per pochi giorni.

Netanyahu legge i dati sempre più preoccupanti della pandemia ma forse tiene d’occhio di più i sondaggi. E i risultati lo lasciano inquieto. D’altronde la manifestazione di sabato scorso a Tel Aviv contro il governo alla quale hanno preso parte decine di migliaia di israeliani – in gran parte lavoratori indipendenti, commercianti e liberi professionisti colpiti dalle conseguenze economiche della pandemia – è stato un segnale preciso del consenso che vacilla.

Il premier è corso ai ripari promettendo aiuti a pioggia alle famiglie: mercoledì ha annunciato sussidi straordinari per 6 miliardi di shekel (1,7 miliardi di dollari). Andranno anche alle famiglie con proprietà e un reddito elevato, tra le proteste di chi ha perduto tutto in questi mesi.

 

 

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