Covid, la cassa integrazione arriva in ritardo e con una perdita secca del salario
Giustizia sociale? Uil: persi 4,8 miliardi. E alla fine delle misure tampone rischiano il licenziamento
Giustizia sociale? Uil: persi 4,8 miliardi. E alla fine delle misure tampone rischiano il licenziamento
La quarantena è stata una doppia pena per i lavoratori dipendenti che sono stati messi in cassa integrazione. Non solo gli ammortizzatori sociali sono arrivati in ritardo, lasciando per settimane o per mesi senza un reddito milioni di persone, ma gli importi degli stipendi prima del «lockdown» sono stati dimezzati. Costretti a casa, non per loro volontà né per quella delle azienda, ai lavoratori alla fine qualcosa sta arrivando, ma con una perdita secca che non sarà rimborsata.
Un esito scontato, per chi conosce i meccanismi della cassa integrazione in Italia, ma non per chi ha presentato la sua eccezionale estensione temporanea come una misura di giustizia sociale. Lo sarebbe stata se la cassa fosse stata rimborsata al 100%. Così purtroppo non è stato come emerge dai dati elaborati dal «servizio lavoro, coesione e territorio» della Uil che ha elaborato i dati Inps. Il problema si è presentato per 8,4 milioni di lavoratori, dei quali 5 milioni a «zero ore». Per questi ultimi, la perdita media in busta paga ha quasi toccato i mille euro netti, nel bimestre. «Tra riduzione dello stipendio e mancati ratei della 13esima e della 14esima – spiega la segretaria confederale Uil, Ivana Veronese – in due mesi le buste paga si sono alleggerite mediamente dal 18% al 37%, a seconda del reddito». Un dipendente con uno stipendio medio, 1.400 euro netti, ha perso così 444 euro al mese e un lavoratore part-time che, prima del lockdown, guadagnava 800 euro ha avuto una mini-busta paga, alleggerita di «soli» 145 euro.
In questi, e altri casi, la differenza avrebbe dovuto metterla il governo. Sarebbe costato molto di più degli oltre 25 miliardi di euro già stanziati e rinnovati nel «decreto rilancio» di 55 miliardi, approvato ieri dalla Camera (vedi pezzo in pagina)? Sì, ma questo significa emergenza. Altrimenti, com’è accaduto in Italia, sono i lavoratori a pagarla.
Non va dimenticato un altro elemento che potrebbe interessare questi lavoratori al termine dei loro periodi di «cassa» ai quali si aggiungeranno altre quattro settimane anticipate dal decreto rilancio, insieme alla proroga del blocco dei licenziamenti. Una parte significativa di loro – le stime variano, ma potrebbero essere anche diverse centinaia di migliaia di persone – potrebbero essere licenziate per fallimento delle aziende, o per la cosiddetta «ristrutturazione». Questo senza contare i contratti a termine non rinnovati, per i quali inutilmente il decreto rilancio ha sospeso temporaneamente le clausole leggermente restrittive previste dal «decreto dignità» Alla doppia pena già vissuta potrebbe presto aggiungersi una terza: il licenziamento. Eventualità verso la quale ci si avvia con un sistema degli ammortizzatori sociali vetusto, cervellotico, inefficiente, per nulla universale e, per di più, riformato ai tempi del Jobs Act di Renzi e del Pd con una logica opposta a quella della crisi attuale. Nel 2015 si pensava a togliere al più presto il sussidio, e a renderlo difficilmente accessibile perché il disoccupato avrebbe trovato «naturalmente» lavoro. Era una finzione. Lo sarà ancora di più in una crisi che sarà pluriennale e, per ora, è stata rallentata dall’eccezionale sforzo finanziario dello Stato di evitare il peggio. Durerà ancora poco.
La ministra del lavoro Nunzia Catalfo continua ad annunciare una riforma degli ammortizzatori sociali anche in vista della prossima ondata di licenziamenti. Non sarà facile trovare una quadra tra le forze di maggioranza, considerato anche l’attuale rifiuto di riformare il sistema di workfare impropriamente definito «reddito di cittadinanza», tenuto separato dal discorso sulla riforma della cassa integrazione, e non considerato in una visione universale del Welfare.
Per ora si sta discutendo di un prolungamento del blocco dei licenziamenti, e della cassa integrazione finanziata dagli oltre 20 miliardi che arriverebbero dal piano «Sure» della Commissione Ue. Misure tampone, non strutturali, finanziate a termine. Si arriverà, con fatica, alla fine dell’anno. Dopo, per il momento, c’è il vuoto.
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