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La grande bruttezza del digitale

La grande bruttezza del digitale

Post Virus È giunto il momento di ricordare che quanto contribuisce a tracciare le identità digitali delle persone appartiene alle persone e non alle piattaforme

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 17 aprile 2020

La stucchevole propaganda sulla grande bellezza dell’era digitale si è sgonfiata come una gomma bucata alla prima vera prova sul campo.

L’emergenza del Covid-19 ha dato quattro schiaffi agli esegeti e ai supereroi delle tecniche algoritmiche. Le sequenze numeriche incomprensibili ai comuni mortali assomigliano alla letteratura del mistero o alla fantascienza, e da questo traggono un’apparente oggettività.

Sotto una simile lunga coperta si sono inserite negli anni vere e proprie linee opportuniste o strumentali: dall’accostamento forzoso del digitale alla televisione, alla creazione di Agende e agendine, al ricorso e alle passerelle di consulenti e soloni.

A farne le spese è stata la sostanza, che dovrebbe prevalere sull’accidente: la diffusione capillare (e senza discriminazioni sociali o territoriali) della banda larga e ultralarga dove siamo i penultimi nel continente; la formazione e l’educazione a distanza con i suoi buchi neri; il cosiddetto smart working avvolto oggi da un alone ideologico; una vera riforma della pubblica amministrazione, dove tuttora cento fiori convivono con software (spesso non free) e programmi incomunicanti.

La carta di identità elettronica fu lanciata già nel 2000 alla conferenza europea di Lisbona sull’innovazione e rimane in molti luoghi una sorta di privilegio.

Con simili buchi e fragili rattoppi siamo arrivati all’«ora più buia», citazione di Winston Churchill riscoperta secondo l’onda alla moda. Ci si è scontrati con il passaggio a nord-ovest della lotta al contagio, efficace se condotta con gli strumenti – di per sé formidabili- dell’età computazionale.

Al potere virale si risponde con un omologo potere virale, è stato giustamente sottolineato. Grazie agli algoritmi, infatti, il contagio può essere costretto ad uscire dall’oscurità e a venire alla luce. Si dibatte, si dibatte: da una parte i 74 componenti coinvolti dalla ministra dell’innovazione Pisano, dall’altra i 17 della task force guidata da Vittorio Colao formano la bislunga tavolata che dovrebbe decidere se e quale applicazione a telefoni e smartphone adottare. Parrebbe buona qualcuna delle ipotesi basate sul metodo del bluetooth, che indica le onde elettromagnetiche emesse dal mezzo e non la persona.

Il nome in gergo è Pan-European Privacy-Preserving Proximity Tracing (Pepp-pt). Si vedrà, speriamo in tempi brevissimi. Nel frattempo, anche a causa della colpevole riforma del Titolo V della Costituzione datata 2001, le Regioni sono tentate dal «fai da te». Vedi Lombardia, ma pure Toscana.
In un’epoca di emergenza pandemica è essenziale, invece, capire innanzitutto chi decide e chi controlla. Non c’è spazio per convegni e seminari. Meglio, poi, una sinergia almeno europea, se non globale.

Se sulle soluzioni tecnologiche pare profilarsi una strada, è opportuno utilizzare ogni opportunità possibile. Ivi compreso il tesoro di dati nelle mani degli Over The Top. È doveroso chiarire un punto chiave.

È grave, ad esempio, che Apple e Google si accordino tra di loro per fornire servizi e vengano accolti persino come eroi.

Insomma, è la volta buona – per necessità o per virtù che sia- per tentare di risolvere una delle principali questioni irrisolte del capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza (il sesto potere, è stato chiamato). Vale a dire di chi è la proprietà dei dati utilizzati massivamente dagli oligarchi della Rete. Ciò che contribuisce a tracciare le identità digitali delle persone appartiene alle persone medesime, non ai vari motori di ricerca o al Re dei social Facebook.

Il governo e il parlamento avrebbero l’obbligo di inserire in uno dei testi normativi in gestazione proprio il tema della proprietà pubblica dei dati.

Che andranno pure concessi in usufrutto agli Over, ma per finalità circostanziate ed estranee a ciò che può mettere in causa i diritti costituzionali. I dati sono un bene comune. E solo la sfera pubblica ne ha legittimamente la potestà.

Nell’attuale particolare frangente, si pensi almeno ad una fase di transizione, volta a pretendere i dati utili a meglio indagare sulle origini e gli sviluppi (e quindi sul futuro) del contagio. Non è un’alternativa rispetto ai progetti in discussione, bensì un complemento necessario. Lo scandalo dell’appropriazione privata dei dati, comunque, deve finire.

Naturalmente, vanno equilibrate le esigenze di tutela della salute e la riservatezza. Sarebbe bene, quindi, che alla testa vi fosse una struttura medica afferente al ministero della Salute, con il segreto professionale. Con la vigilanza del Garante per i dati personali, che ha offerto buona prova di sé.

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