Costituzione, la metà basta
Camera Opposizioni fuori dall’aula, Pd e alleati votano da soli la riforma. Per Renzi «non è un problema». Per il suo partito solo un po’. L’«Aventino» al posto dell’ostruzionismo è la scelta della disperazione. Tra i dissidenti nessuno trova il coraggio di far mancare il numero legale
Camera Opposizioni fuori dall’aula, Pd e alleati votano da soli la riforma. Per Renzi «non è un problema». Per il suo partito solo un po’. L’«Aventino» al posto dell’ostruzionismo è la scelta della disperazione. Tra i dissidenti nessuno trova il coraggio di far mancare il numero legale
«Non votano? Problema loro». Comincia a scendere la sera quando l’aula della camera dei deputati si svuota per metà. Solo allora si sbloccano le votazioni sugli emendamenti, i subemendamenti e gli articoli della legge di revisione costituzionale. Accade quando tutte le opposizioni sfilano via e il Pd e i suoi alleati centristi cominciano a fare da soli. Nell’aula resta il ricordo delle risse e delle scazzottate notturne; niente più ostruzionismo né sparring partners. Ma il vuoto lascia addosso cattive sensazioni, rari onorevoli Pd tentennano. Renzi si occupa di rincuorare gli scettici e ammonire i dubbiosi: Le opposizioni non votano? «Problema loro».
L’aula di Montecitorio è un semicerchio diviso in dieci spicchi, i quattro più a destra sono completamente vuoti. Un altro spazio abbandonato è all’estrema sinistra, lì c’era Sel. Giornali, appunti, fascicoli e caricabatterie testimoniano che i titolari dei posti non si sono allontanati troppo. Girano in altre stanze del Palazzo per conferenze stampa, vengono convocati in riunioni. Fuori protestano, dentro si cambia la Costituzione.
Finché sono rimasti in aula, Lega, Sel e 5 Selle con Forza Italia di complemento hanno imbrigliato notte e giorno discussione: si viaggiava al ritmo di tre articoli al giorno (su 41). Poi la scelta dell’Aventino, la stessa che il centrosinistra fece nel 2003 contro la Devolution di Bossi e Berlusconi ma soltanto all’ultimo voto, dopo aver dato battaglia sugli articoli. La fretta di oggi si spiega un po’ con il fatto che stavano per esaurirsi anche i tempi supplementari per gli interventi della minoranza, un po’ con la ricerca di un gesto all’altezza del decisionismo di Renzi. E con la speranza che gli spettatori guardino meno alla vittoria del presidente del Consiglio e più alle macerie che la circondano. Per Renzi, appunto, non è un problema.
Dovrebbe esserlo per la minoranza bersaniana del Pd, che negli ultimi tre giorni non ha toccato palla assistendo alla messa in scena di una mediazione tra palazzo Chigi e i grillini. Non che Renzi avesse intenzione di modificare qualcosa nella «sua» riforma, non che i 5 stelle fossero pronti al compromesso. Ma gli abboccamenti sono un ottimo metodo per scaricare le responsabilità. «Abbiamo i numeri per andare avanti da soli, ma è un errore», proclama il capogruppo del Pd Speranza prima di dedicarsi con cura all’errore. La regia non è parlamentare: nel momento delle decisioni tutti gli sguardi del gruppo democratico corrono alla ministra Boschi e ai sottosegretari Lotti e Delrio, loro a turno interrogano il telefono. Renzi non lo nasconde: «Stanno cercando di bloccare il governo, non le riforme». Dal primo giorno su questa modifica di quasi un terzo della Costituzione pende la questione di fiducia, non si vota tanto sul bicameralismo quanto su un testo scritto a palazzo Chigi e portato avanti con i tempi decisi dal governo. Si vota in pratica sulla durata della legislatura.
Ecco il problema della minoranza Pd: malgrado non debba più trattare con Berlusconi, Renzi concede poco o nulla a chi chiede di cambiare qualcosa, qualche piccola cosa della riforma. Anzi, il premier rovescia sulla minoranza il peso dell’accordo con l’ex Cavaliere: «Mai visti tanti nostalgici del Nazareno». L’aula vuota a metà è una clamorosa smentita del suo «le regole del gioco si fanno con tutti», lo slogan che serviva a giustificare i patti con Verdini. Adesso è cambiato. «Non mi faccio ricattare», dice. È la Costituzione, ma anche un fatto personale. Intanto la minoranza si concentra sul metodo: cerchiamo ancora un accordo con le opposizioni, dice Bersani nel secondo tempo della riunione del gruppo, fermiamo la seduta fiume.
Volendo, potrebbero. Svuotata dagli «aventiniani», l’aula è continuamente a rischio numero legale. Sono fisicamente presenti tra i 300 e i 310 deputati. Diverse decine sono in missione e dunque formalmente presenti solo per la regolarità della seduta. Per bloccare tutto basterebbero un po’ di bersaniani al bar. Non salterebbero le riforme, salterebbe però la seduta fiume. Ma al dunque solo Stefano Fassina e Pippo Civati prendono parola per dire «non così» e lasciare l’aula. Un altro po’ di deputati della minoranza, come Bindi, Zoggia, Stumpo, lo stesso Bersani, a tratti evitano di votare. Sono poche gocce di una dissidenza che non si amalgama. Dai banchi alti interviene Cuperlo per chiedere alla presidente Boldrini di concedere una sospensione, quella tregua che il Pd non intende concedere. E allora protestano i centristi, Scelta civica e popolari. «È stato il Pd a portarci a questo punto, che questo sarebbe stato l’esito della seduta fiume era chiaro dal principio. Non si possono avere dubbi adesso, non si possono fare due parti in commedia», infierisce Tabacci. Ed ecco che Renzi trova cinque minuti per gli affidabili alleati centristi, una passerella che quelli del Nuovo centrodestra si risparmiano.
Per la minoranza interna le briciole. Di primo mattino il deputato Lauricella quasi implora l’appoggio del partito sulla proposta di inserire in Costituzione il divieto di future revisioni contrarie ai principi fondamentali: «Vi sto chiedendo di votare l’acqua calda, se ci dite no anche adesso non abbiamo alcuna speranza». Dicono no. E a sera è Speranza ad annunciare il risultato dell’assemblea: «La minoranza ha opinioni non coincidenti, ma in aula voterà rispettando la decisione della maggioranza». Ricomincia la seduta.
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