Un documentario pieno di porte e di insospettati passaggi spazio-temporali, di aperture sul puro esistere animale ancestrale, sui suoi movimenti lentissimi eppure sottilmente ricettivi, vigili. Un documentario di buche profonde su tracce di vite preistoriche, lontane ma umanamente pulsanti, vicinissime. Proprio quando il mondo è costretto a fermarsi, apparentemente congelato, a una finestra si schiudono gemme che tornano miracolosamente a punteggiare i rami glabri dell’inverno.
Allora schermi immersi in un buio bluastro materializzano il dolore di una separazione forzata tra due giovani donne che si amano, mentre inquadrature agili come palpebre si chiudono sulle loro interiorità in ascolto.

È il profumo che porta con sé Il tempo della tartaruga di Costanza La Bruna, in questi giorni al Sicilia Queer filmfest a Palermo, diretto da Andrea Inzerillo. Ma accanto alle note citate ci sono anche nuances di attesa e di noia, c’è l’isolamento come confronto dolente con se stesse e c’è la morte, anche come transizione memoria e rinascita.

Perché la cornice storica è quella della primavera 2020, che rimarrà associata alla prima straniante reclusione collettiva causa pandemia, un evento immane che avrebbe forse potuto tradursi in una chance più fertile per il cinema, e che invece ha spesso condotto a due posizioni parimenti insoddisfacenti, o alla rimozione del tutto o alla riproposizione quasi pedissequa della narrazione mediatica.

Nel documentario di La Bruna ci sono invece diverse idee (alcune meglio realizzate), che agiscono lo strumento cinematografico come grimaldello interpretativo di un «reale» che in quel recente ma forse già rimosso passato si è imposto con connotati inesorabilmente peculiari.

Una di queste chiavi per aprire «uscite dal mondo» è l’inconscio, quel «sogno lucido», ossia consapevole di stare sognando, di cui racconta la filmmaker in voice over nell’incipit, mentre di spalle, in presenza anche fisica nel film, contempla alberi di limoni e palazzi in lontananza.
Altra chiave è la figura della nonna, che era sua maestra di «immaginazione che si nutre del limite ma che non ha limiti». A lei in quel sogno rivolge la domanda cinematografica per eccellenza, qual è il segreto per viaggiare nel tempo?

Scava, risuona allora nel film mentre, complice un passaggio per le cartografie incantate di Saramago (Il racconto dell’isola sconosciuta), ci si trova catapultati a Ustica – il cui anagramma è «uscita» – dove Claudia Speciale, archeologa e compagna della regista, guida uno scavo con dieci giovani ricercatori e ricercatrici.

Nel frattempo Costanza, dopo quindici anni, incredibilmente ritrova in giardino la tartaruga che aveva perduto (per un gioco di rispondenze, Ustica – per i greci Osteodes, l’isola delle ossa – ha la forma di questo animale).

Così l’apparente immobilità della testuggine e il riflettersi di chi gira in quel suo tempo rarefatto e impalpabile apre spiragli di un tempo queer, duttile e reinventato. Uno stare nella lentezza che avrebbe potuto essere approfondito ulteriormente, e che dispiega i suoi migliori respiri quando la telecamera cerca di trovare punti di congiunzione tra le sue configurazioni temporali e il vissuto imperscrutabile della tartaruga.

Intanto lo scavo, con tutta la sua fatica fisica e la sua risonanza simbolica, infrange la linea convenzionale del tempo della costrizione e delle sveglie e dà vita a un sogno lucido collettivo, a un ricamo di desideri, di foto e di ossa, pregno del mistero amoroso di «essere e tempo» su cui – pandemia o meno – mai bisogna far chiudere le porte.