La poesia di Juan Carlos Galeano è una tessitura finissima dei miti delle comunità locali insediate lungo i fiumi e le giungle dell’Amazzonia. Nato in Colombia nel 1958, autore di sette raccolte poetiche, del documentario The Trees Have a Mother (2007) e di un florilegio di racconti, Cuentos amazónicos (2016), Galeano canta limpidamente il mondo animale e vegetale nonché borgesiane creature immaginarie in Amazzonia, la sua silloge più celebre, ora disponibile anche nella nostra lingua (Del Vecchio Editore, pp. 130, euro 19,00, traduzione di Silvia Valisa, prefazione di Serenella Iovino).

Secondo Charles Simic, Amazzonia è «una sequenza poetica e insieme una storia affascinante. Raramente la lirica e la narrativa, la realtà e l’immaginazione si sono combinati in modo così riuscito». Ascrivibili alla linea più intimamente elegiaca del vasto movimento dell’ecopoetry, i versi di Galeano mantengono un saldo contatto con le personificazioni tipiche del realismo magico di Nicanor Parra. Così in Tavolo: «Spesso il tavolo sogna di essere stato un animale. / Ma se fosse stato un animale non sarebbe stato un tavolo. // Se fosse stato un animale sarebbe corso via come gli altri / quando arrivarono le motoseghe a tagliare gli alberi che sarebbero diventati tavoli. // Nella casa viene una donna ogni sera / e gli passa uno straccio caldo sulla schiena come se fosse un animale. // Con le sue quattro zampe il tavolo potrebbe andarsene dalla casa. / Ma pensa alle sedie che lo circondano e che un animale non abbandonerebbe mai i suoi piccoli. // Quello che piace di più al tavolo è che la donna gli faccia il solletico / mentre raccoglie le briciole di pane lasciate dai bambini».

Dal 1983 Galeano vive negli Stati Uniti ed è attualmente professore di poesia latinoamericana e cultura dei popoli amazzonici alla Florida State University di Tallahassee. Oggi alle ore 17:30 a Roma, presso la Biblioteca Enzo Tortora, è prevista la presentazione di Amazzonia: Galeano converserà con l’ispanista Claudia Putzu.

Le sue liriche riannodano le antiche tradizioni e le cosmogonie del Rio delle Amazzoni. Qual è il significato profondo di questa operazione rammemorativa?
Sono nato in Amazzonia e senza dubbio la mia posizione è associata alla spiritualità ecologica, esistente nelle religioni e nei sistemi di credenze delle antiche culture indigene della Terra, la cui mentalità animistica favoriva molte relazioni sostenibili tra esse e l’ambiente. Sebbene il mio lavoro si collochi all’interno della poesia ispanoamericana, cosmopolita e diversificata, nutrita da altre tradizioni come la poesia giapponese e il surrealismo, il mio stile e i miei temi sono radicati anche nelle culture amerinde dell’Amazzonia. Ho ascoltato le storie di pescatori, cacciatori e indigeni. I loro sistemi concettuali hanno permeato la mia scrittura, che è diventata una pratica celebrativa della vita sulla Terra, della vita come un tutto indivisibile, con un atteggiamento contrario alla mente antropocentrica, piena di dualismi e di potenti divisioni all’interno dell’essere. Una lirica, che sintetizza quelle tradizioni narrative dell’Amazzonia a fondamento della mia poetica, è Curupira. L’ho scritta dal ricordo di molte storie relative a questo guardiano delle foreste. Il Curupira è un essere soprannaturale, sorto in Brasile diversi secoli fa. Considerato un essere trasformativo, il Curupira può trasformarsi in forma umana o animale per ingannare e punire i cacciatori e i malfattori che distruggono la foresta. Per molto tempo, i racconti su Curupira, Mapinguari, Yakumama e molti altri esseri soprannaturali del bacino amazzonico sono stati percepiti dagli esploratori e dagli stranieri come semplici storie di intrattenimento.
Per le popolazioni indigene le leggende di Curupira non sono solo intrattenimento; sono alfabetizzazioni scientifiche indigene amazzoniche, o strumenti visivi, capaci di istruire gli esseri umani nell’esercizio della reciprocità e nel comportamento appropriato nei confronti del mondo non umano. Come narrazioni simboliche, possono anche teorizzare la globalizzazione, l’accelerazione dei cambiamenti ambientali e le conseguenze per le foreste amazzoniche, l’umanità e la Terra.

Il fiume è forse l’elemento più fortemente simbolico di «Amazzonia». Cosa si nasconde dietro a tale “densità” – per utilizzare un termine di George Steiner – semantica?
I fiumi sono sempre presenti nella vita degli umani e dei non umani in Amazzonia. Hanno un potere particolare in tutti i tipi di narrazioni orali delle popolazioni indigene e non indigene che condividono il bacino. Appaiono in diverse poesie del libro, riflettendo come la materialità del mondo produca ogni cosa. È grazie alla materia che abbiamo cultura, storie, poesia. Se non fosse per le foreste e i fiumi, non avremmo i Curupira, i Chullachaki e gli Yakumama. Dove altro vivrebbero? La materia della Terra e la sua salute sono molto importanti per noi. Il fatto che i fiumi (la cui azione è rappresentata metaforicamente nelle narrazioni simboliche come esseri androgini) siano così essenziali per la vita amazzonica, si riflette nella mia poesia Coloro che credevano. Si tratta di un testo citato da Papa Francesco nel 2020 nella sua Esortazione post-sinodale Querida Amazonia.

Nella prefazione, Serenella Iovino sottolinea come i suoi testi siano in costante dialogo con Franz Boas, Eduardo Viveiros de Castro, Marisol de la Cadena, Eduardo Kohn. Qual è il peso specifico dell’antropologia e dell’etnografia in «Amazzonia»?
Penso che l’associazione della mia poesia all’etnografia e all’antropologia culturale derivi dal tessuto stesso dei miei versi. Non ho mai seguito un corso di antropologia; durante gli anni universitari ho studiato psicologia, diritto e lettere. Dallo stile narrativo e dall’etnopoetica che ho sperimentato da bambino ascoltando leggende di sciamani, popolazioni indigene e residenti lungo il fiume, ho imparato a parlare del mondo senziente. L’Amazzonia mi ha rivelato uno stile mitopoietico, mi ha insegnato a raccontare una storia.
Volevo creare un microcosmo immaginario in cui fiumi, case, alberi, uccelli e oggetti fossero come persone. È il tentativo di veicolare la psiche della Terra. Non è proprio ciò che la poesia vuole? Diventare un canale pieno di sentimenti per l’uomo e per l’universo? La modalità delle mie poesie arriva con il cuore e gli occhi, guardando il mondo. Questa è l’«attenzione focalizzata» che dobbiamo all’arte, come diceva il poeta José Emilio Pacheco.

Nel libro figurano ampie schiere di alberi, pesci, tartarughe da preservare. Quale valore attribuisce alla biodiversità?
Indubbiamente tutte le specie contano. La biodiversità dell’Amazzonia è ciò che i miei libri desiderano celebrare. Vorrei, attraverso le parole, evocare nel migliore dei modi sulla pagina le persone, gli animali, i luoghi, i fiumi e altri esseri visibili e non visibili dell’Amazzonia. Questa mia poesia la voglio senza purezza, che contenga tutto, senza escludere il saccheggio della Terra, l’umiliazione delle persone, la felicità, l’amore, il desiderio e le emozioni umane. Voglio che questo tipo di poesia si reinventi per onorare il nostro stupore davanti al mondo, come qualcosa degno di essere venerato. La lirica Nuvole racconta di un uomo occidentale che va in Amazzonia per civilizzare e portare la modernità nel luogo. Gli indigeni, al contrario, cercano di ristabilire le unioni e i legami di tutte le continuità che sono state disturbate, distrutte.

Cosa ne pensa dell’idea di «ecologia integrale» sostenuta da Papa Francesco?
Sperimentare la vita all’interno di un’ecologia integrale è ciò che dobbiamo realizzare per il benessere degli altri e per la nostra stessa sopravvivenza. Penso alla necessità di sviluppare una consapevolezza che ci permetta innanzitutto di fare una critica radicale alle narrazioni economiche e politiche del nostro tempo. Il capitalismo è l’assassino della vita. Solo così possiamo raggiungere un’ecologia integrale che per noi significa quella necessaria sincronicità del sociale e del personale con l’ambiente per nutrire tutti i tipi di relazioni e continuità nel mondo. Dobbiamo credere nell’interconnettività di tutti gli esseri e delle pratiche umane. Questo è il paradigma di vita che dobbiamo imparare dalle filosofie e dalle pratiche degli indigeni amazzonici. Dobbiamo sentire che tutti i luoghi e le specie sono importanti quanto noi. Ignoriamo che altri esseri hanno reso possibile l’origine e lo sviluppo della vita umana. Ritengo che, se costruissimo mondi immaginari che ci permettessero di vedere e, soprattutto, sentire l’esistenza dalla prospettiva di altre specie e luoghi sulla Terra, potremmo ritornare sulla retta via verso una vita più sostenibile. Per trascendere il nostro antropocentrismo, dobbiamo adottare le paure e le gioie di una montagna, di un fiume, di una pianta. «L’immaginazione – ci ricorda lo scrittore e poeta Wendell Berry – non è scollegata dalla realtà, dalla verità o dalla conoscenza». Il mio contributo poetico consiste nel far risplendere la realtà con quei mondi immaginari, con l’uso delle parole.