Visioni

Cosmo e il senso del ballo

Cosmo e il senso del balloCosmo durante il concerto del primo maggio a Roma – foto Ansa

Musica Il cantante visto dal vivo a Metaponto, il tour prosegue a Vicenza, Teramo, Reggio Emilia. Le canzoni da «Fuori» a «Mango» e «La musica è illegale», ospite Pan Dan

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 17 agosto 2024
Luigi AbiusiMETAPONTO

Uno dice, il ballo, nel migliore dei casi declinato in senso dionisiaco – qualcosa come i sistri d’un tempo, percussioni frenetiche a tenere a bada qualcosa di sinistro, poi il deliquio notturno, l’oscurità che si fa profondità astrale –, una specie di ipnosi in cui il corpo si esalta, si codifica secondo principii fonico-ritmici dettati dal cosmo.

MA NON È TANTO questo, il ballo (pur così semanticamente inteso), o comunque non è solo questo, quanto piuttosto il salto, la fenomenologia del salto, certo cadenzato, reiterato come il sesso, verticale a forza di vertigine: il saltare, a regolare – o meglio, a sregolare – la dinamica del concerto di Cosmo, tanto più quando arriva quel capolavoro situazionista che è Tristan Zarra, e allora, fomentati da un urlo, un ululato famelico del «mistagogo» (ecco, c’è questa magia nelle esibizioni di Cosmo, questa neo-mitologia affidata ai sibili, agli orditi di bip che tramano da sotto con la profondità dei bassi, agli acidi lattescenti che secernono per sfregamenti di byte), sono tutti – le Marilee, le Lucrezie, i Raffaeli assiepati– trascinati nel salto sfrenato e nelle giaculatorie di «festival, polizia polizia, festival, grazie a dio grazie a dio, festival, pizzeria pizzeria» e poi «bum chacchacchà bum chacchacchà bum uh!».

Uno dice, un po’ infantile: esatto, ma in un senso di ingenua liberazione, di candida malizia, di condivisione dell’esperienza e dell’esistenza in quanto festa, celebrazione della vita, che si fa politica (schietta, terranea), tant’è che mentre dal palco trapela che «la verità è che stiamo bene e che ci piace stare insieme», tra il pubblico scalpitante sul selciato di ciottoli, c’è chi rende collettiva una bottiglia ialina, o una sigaretta mencia, sbilenca; chi aiuta il perfetto sconosciuto a rialzarsi da terra e gli porge l’ultimo prezioso sorso di gin; chi grida «abbasso Vannacci», finché non compare sul palco una bandiera palestinese. Insomma, c’è un senso apotropaico nello spettacolo di Cosmo, che è quanto di meglio si possa trovare in giro in questa estate torrida, da Metaponto a Locorotondo, a Maida (Catanzaro) per risalire a Romano d’Ezzelino (Vicenza) il 22 di questo mese, a Roseto degli Abruzzi (Teramo) il 23, fino alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia il 29.

Ma non è solo questo: alternato ai brani elettronici, al tripudio ritmico, il ballo, il salto, che aprono spazi alternativi rispetto alla mestizia dello stato delle cose – un microcosmo di corpi che si ordinano (disordinano) in un’alterità coreografica, linguistica, come segni cosmogonici sul cuor della terra –, c’è un che di riflessivo, di poetico, anche malinconico in questo concerto; brani come Quando ho incontrato te che non sono che il contrappunto contemplativo di un subitaneo ritorno allo sfrenamento (e viceversa), al rito di un dinamismo sublime, plastico, di cui se Cosmo è il sacerdote (ora, ecco, se ne sta a petto nudo, lustro, scoperto dalle luci stroboscopiche che ne evidenziano la pelle glabra, i solchi iliaci), Pan Dan, alabastrina, è la «sacerdotessa dei piaceri sterili» mentre imperversa panica sul palco, tornita nelle natiche, concupiscente negli accosciamenti e nei gemiti (dentro Fuori lei mugola, «più veloce più veloce!», con la più bella voce del mondo: ascoltate il suo singolo Primavera e capirete «il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte»), supermarionetta che si dà, si apre allo spazio tutt’intorno mentre incalza l’elettronica alla fine di Fuori, di Mango, La musica è illegale, sedimenti di pura techno, di pura, fluida «religione dell’avvenimento del mondo», così che del tempo viene sospeso il corso.

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