Anno 2008: la tournée dello spettacolo Cinq Hommes della Compagnie du Passage, da un testo di Daniel Keene, viene diffusamente filmata dall’occhio amatoriale di uno degli attori, Antonio Buil, in un videodiario che non ha forma definita, né tecnica ed estetica folgoranti, ma che sicuramente – in quelle decine di cassette MiniDv – trattiene sostanza umana. Molti anni dopo, il direttore della compagnia, Robert Bouvier, invita Cosimo Terlizzi a guardare quel materiale grezzo, perché convinto che da una tale documentazione, da quell’archivio confuso, possa scaturire qualcosa di inedito, una visione, una poetica.

«Conosceva il mio percorso, aveva visto alcuni miei lavori come Folder e L’uomo doppio – ci racconta Terlizzi – ma confesso che inizialmente ho declinato il suo invito: erano immagini che contenevano troppi ingredienti diversi, c’erano anche interviste al pubblico degli spettacoli e tante altre parentesi; per me era difficile individuare un filo conduttore. Allora ho pensato di adoperare una sorta di immaginario setaccio, un imbuto per filtrare le cose, per non perdermi in una molteplicità di sfaccettature, per non restare nell’indistinto. Senz’altro, però, a convincermi è stata la morte, nel 2021, di uno degli attori, Boubacar Samb: è suo il personaggio che nello spettacolo dice: ’E anche se non era sicuro di poterlo fare, il quinto uomo voleva scrivere storie’. Ecco, è come se in un certo senso quel quinto uomo fossi diventato io». E così è nato Cinque uomini. Un diario al di là della scena, documentario presentato al Torino Film Festival 2022 e a gennaio al Trieste Film Festival.

Una riscrittura, un cinema del reale che sonda l’irreale della verità inaspettata, improvvisa; il nuovo tassello di una ricerca che defila il proprio archivio, la propria memoria, la propria corporeità, come già a partire da Aurora. Un percorso di creazione, per ricucire i pezzi di altri mondi. «In effetti – prosegue Terlizzi – quello che faccio e che ho fatto anche qui assomiglia un po’ all’unire i pezzi di un puzzle. Il materiale da cui son partito per questo lavoro mi era estraneo, non nasceva da me, ma io sono legato a un cinema arcaico, rudimentale, in cui non è mettere in scena l’elemento più importante, ma congiungere le parti. Ho lavorato inoltre a un testo per Antonio Buil, che ho voluto coinvolgere come voce che nel film quelle immagini direziona, confrontandomi con lui mentre ero al montaggio per assicurarmi che non vi fossero dissonanze tra il testo e il visivo. E poi succede che la realtà in alcuni momenti sa essere talmente assurda da sembrare finzione, una magia, come nel finale del film, in cui accade qualcosa che ti tocca, ed è un toccare non logico, che va a intaccare il flusso del reale, a bucarlo, a produrre una crepa».

Antonio Buil guarda in camera come a cercare uno specchio in cui riconoscere sé stesso e i suoi compagni, come a rintracciare ancora un mistero inaccessibile, quel donarsi agli altri – al pubblico, alla realtà, allo sguardo giudicante o indifferente o commosso del mondo – senza sapere perché, un gesto sempre radicale e doloroso, incontrollabile. Antonio, Dorin Dragos, Abder Ouldhaddi, Boubacar Samb e Bartek Sozanski, attori di diverse parti d’Europa e dell’Africa, «sembrano quasi – continua il regista – personaggi provenienti dal mondo di Aki Kaurismäki, sospesi tra il terreno e il sublime. Transitano da un posto all’altro, in treno, in macchina, dimorando fugacemente in alberghi molto modesti; si esprimono in un francese piuttosto difettoso, tanto che ho previsto sottotitoli anche per gli spettatori francesi. Sono ’operai’ del teatro: la stanchezza, due repliche al giorno, il crederci a volte, altre volte non crederci… Uno di loro, a un certo punto, spia da un foro il pubblico che attende lo spettacolo quasi fosse un plotone pronto a far fuoco. Sono, tra l’altro, gli attori di una commedia, un registro che non è nelle mie corde, che non mi appartiene, ma quello che mi interessava con questo film – e che in loro ho trovato – era il rimanere nell’attore, di un mondo che a noi è spesso precluso, il retroscena, il non-eroico, l’antieroico, quel lato oscuro che tocca l’essere umano e che è molto lontano dal sovrumano che invece abita il palco. Nei camerini tutto cade, si va all’osso delle questioni. È quello che succede a questi uomini. La vita segreta dell’arte, del resto, mi ha sempre affascinato, ho anche un passato giovanile da maschera di teatro, da valletto di scena, vedevo e sentivo tutto ciò che succedeva».

Una «bolla», quella dei Cinque uomini, con questi camerini che sono insieme «non-luogo» e territorio di intimità, della confessione, del dubbio, dell’incertezza identitaria, della necessità di un senso possibile, che richiama altre opere precedenti dell’autore pugliese, da Aurora. Un percorso di creazione, che ha per protagonisti atleti ipovedenti e non vedenti, a Non troverete nulla di me in questo film, sull’unica esperienza cinematografica di Eleonora Duse (che da anni aveva abbandonato il teatro ma ci ritornerà), con il muto Cenere, del 1916, un eclatante insuccesso commerciale, ricavato dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda e diretto e co-interpretato da Febo Mari. L’impenetrabile archivio di immagini che appartiene a chi non vede; lo schermo che diventa il non-luogo della grande attrice di teatro: anche qui Terlizzi, dunque, alle prese con oggetti materici e spazialità da ricollocare, dalle ombre della realtà ai fantasmi del cinema.

«I protagonisti di Aurora – conclude – non conoscevano le mie opere, non conoscevano il mio mondo, ma sono persone che si situano oltre. Quando vanno al cinema capiscono se è un film è didascalico, se mostra tutto. C’era tra loro un ragazzo, cieco dalla nascita, che trovava il centro della scena meglio di noi. Faceva dei passi rumorosi e sentiva il centro perfetto del palco. Noi siamo bidimensionali, mentre loro sono tridimensionali, hanno una sensazione dello spazio molto più fisica. Non troverete nulla di me in questo film è la sconfitta della Duse contro il grande occhio ciclopico, contro il mostro del cinema, un mezzo che lei voleva dominare e che invece l’ha dominata. Per certi versi è un po’ quello che è successo a me con Dei: il cinema dell’industria può risucchiarti, e la mia natura mi porta inevitabilmente a lavorare con mezzi espressivi svincolati da un sistema rigido di produzione, vicini piuttosto a un’idea di schizzo veloce, come una frase o un disegno tracciati al volo su un foglio. La qualità si sposta allora su un altro livello, non a ha a che fare con la saturazione perfetta o con il suono impeccabile. E se poi hai la certezza di aver afferrato ciò che non puoi afferrare diventi manierista. Quello che per me conta davvero è avere una visione per dare ordine al caos».