L’anno 1842 segna la nascita dell’archeologia orientale con le prime esplorazioni, a opera di Paul-Émile Botta, console francese a Mosul, che intraprese lo scavo dell’antica collina di Quyunjiq, in Iraq settentrionale, più tardi identificata con la capitale assira Ninive. Nei decenni immediatamente successivi, esploratori europei, in realtà diplomatici prestatisi alla ricerca archeologica, promossero altri scavi in centri dell’Iraq settentrionale, riportando alla luce l’antica civiltà degli Assiri: i numerosi bassorilievi, ritrovati nelle sale delle residenze dei re di Assiria, divennero presto la maggior attrazione non solo degli archeologi, ma anche di un pubblico più vasto e generico che poteva ammirare le sculture dell’antica Mesopotamia nelle nuove gallerie assire appositamente create nel Museo del Louvre di Parigi e nel Museo britannico di Londra. Come ricordava una notizia apparsa sul giornale L’Illustration del 1847, i re assiri, siano essi Nabucodonosor, Sardanapalo o Nino, avevano finalmente «messo piede» sulle rive della Senna.
Sul finire del XIX secolo, l’attenzione degli esploratori europei si spostò nel sud dell’Iraq, dando inizio a nuove scoperte archeologiche nella regione che era stata occupata dai Sumeri e che aveva visto la nascita delle prime città, delle prime formazioni statali, dei primi imperi della storia e della scrittura. La storia delle scoperte dell’antica Mesopotamia ha seguito un viaggio a ritroso nel tempo, partendo dalla riscoperta degli Assiri (I millennio a.C.) e proseguendo poi con lo scavo delle città sumeriche del III millennio a.C.
Il racconto dei testi cuneiformi
Scoperte sensazionali negli anni seguenti contribuirono a costruire la natura quasi mitica della Mesopotamia, una terra che, per l’apparizione di molte delle invenzioni del genere umano, ancora oggi viene usualmente definita come la «culla della civiltà». I testi cuneiformi, inoltre, fornirono il racconto diretto di vicende antichissime come la creazione del mondo, la nascita dell’uomo o di storie che anticiparono di millenni le narrazioni del testo biblico, come ad esempio il mito del diluvio universale. Le attività di scavo in Iraq proseguirono, quasi senza sosta (a eccezione del periodo dei due conflitti mondiali), fino alla fine degli anni ottanta del secolo scorso: a partire da questo momento, lo splendore dell’archeologia mesopotamica entrò in un’epoca oscura dove la guerra tra Iraq e Iran prima e le successive drammatiche vicende delle Guerre del Golfo fino all’invasione americana causarono una sospensione forzata delle attività archeologiche delle missioni straniere in Iraq lasciando gli Iracheni soli a proteggere e valorizzare l’immenso patrimonio storico-archeologico del loro Paese.
Quando nel 1996 mi iscrissi all’Università di Roma «La Sapienza» con l’intenzione di studiare Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico, la Mesopotamia era quasi una regione sospesa nel tempo, alimentata solo dal ricordo delle grandi epiche scoperte che segnarono la storia dell’archeologia orientale che tutti noi vedevamo come qualcosa di estremamente lontano e passato.
Questo sentimento, ancora più esasperato dal gravissimo episodio del saccheggio del Museo di Baghdad nell’aprile del 2003, sembrava dover essere la normale condizione per tutti coloro che avessero voluto studiare l’archeologia dell’antica Mesopotamia: quella terra così ricca di storia che aveva restituito testimonianze gloriose e fondamentali per la storia dell’umanità poteva essere raccontata e studiata solo sui libri; solo gli archeologi iracheni continuavano caparbiamente e tenacemente a portare avanti ricerche sul campo, nonostante le difficoltà.
Negli ultimi dieci anni, la situazione è mutata: attività archeologiche nel Paese sono lentamente, ma con sempre più frequenza, riprese soprattutto nelle regioni del Kurdistan iracheno a nord e nelle provincie meridionali di Qadissiya, Kut e Dhi Qar.
In un seminario dedicato alle nuove attività di scavo e studio in Iraq svoltosi a Marburg alla fine di luglio di quest’anno, un’archeologa tedesca ha sottolineato come, fino a qualche anno fa, sarebbe stato impensabile anche solo immaginare un convegno di questo tipo con la partecipazione di colleghi iracheni. Oggi, le ricerche archeologiche in Iraq sembrano quasi un fattore normale, anche se ancora vi sono difficoltà in alcune regioni non accessibili (basti pensare alla provincia settentrionale di Mosul recentemente liberata dall’occupazione dello Stato Islamico).
Ripartono le esplorazioni
Proprio in questa nuova fase di riavvio delle esplorazioni archeologiche, mi sono recato per la prima volta in Iraq nel febbraio del 2014 nell’ambito di una richiesta di scavo che, con un collega, avevo presentato alla Direzione Generale delle Antichità di Baghdad. Dal 2015, una missione congiunta della «Sapienza» di Roma e dell’Università di Perugia ha iniziato l’esplorazione del sito di Tell Zurghul, l’antica Nigin, citata in testi cuneiformi del III millennio a.C. e nota per essere la città sacra della dea Nanshe. Ricordo ancora l’emozione di poter finalmente vedere dal vivo un territorio che avevo imparato a conoscere sui libri: ciò che più mi colpì fu soprattutto il paesaggio dall’aereo, solcato dal fiume Tigri che disegnava ampli meandri in un territorio estremamente piatto in cui cercavo di distinguere le colline di siti archeologici e riconoscere finalmente luoghi e spazi che avevo imparato a memorizzare sulle carte geografiche.
L’arrivo al sito fu poi ancora più strabiliante, attraverso una pista asfaltata piena di curve e rialzata rispetto ai campi circostanti, attraversati da numerosissimi canali che ancora oggi gli abitanti della regione usano per irrigare i campi e come vere e proprie vie di collegamento su imbarcazioni di giunchi. L’area, certamente più ricca di acqua in passato, è ancora molto fertile e gruppi di case in mattoni crudi definiscono piccoli agglomerati circondati da floridi palmeti con al centro la tipica casa allungata fatta di canne e paglia intrecciate (in arabo mudhif), la stessa che si ritrova sui sigilli cilindrici sumerici del IV e del III millennio a.C. Il piccolo villaggio accanto al sito sembra un microcosmo che abbiamo imparato a conoscere con visite regolari allo sheikh nel grande mudhif, con inviti dei nostri operai e l’incontro con gli scolari della piccola scuola che fu costruita dalla Task Force Iraq del Governo Italiano nel 2003.
Sullo sfondo, oltre la linea di alberi e palme, piantati lungo le rive di un piccolo canale, e superato un piccolo ponte in terra battuta, potevamo finalmente vedere il sito archeologico che si estendeva piatto senza limiti ben definiti, ma caratterizzato al centro da una collina alta circa 9 metri: in un paesaggio così piatto, la collina si ergeva come una tipica ziqqurat mesopotamica, il simbolo dell’archeologia della Mesopotamia che tanto aveva affascinato i viaggiatori europei dei secoli XVII, XVIII e XIX nel tentativo di identificare la mitica Torre di Babele del racconto biblico. Ma la collina di Tell Zurghul mi fece subito risuonare in testa i versi del cilindro del sovrano Gudea (XXII secolo a.C.), quando ricorda di aver costruito a Nigin il tempio della dea Nanshe come «una montagna che si erge sulle acque». Iscrizioni cuneiformi incise su coni e mattoni di argilla cotti, recuperati sulla superficie del sito nel 2015 e menzionanti la costruzione del tempio, hanno poi confermato il progetto edilizio di Gudea a Nigin, ma già l’unica altura visibile dalla distanza, in un raggio di chilometri, era per me l’inequivocabile segno che mi trovavo ai piedi della montagna sacra della dea Nanshe.