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Così si attrezzano i vincitori nella trincea del senato

Così si attrezzano i vincitori nella trincea del senatoIl presidente del senato La Russa – LaPresse

Maggioranze molto risicate, diversi senatori dovranno dividersi tra più sedute contemporanee. In molti non avevano compreso l'omaggio al gruppo delle Autonomie contenuto nel discorso programmatico di Meloni

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 28 ottobre 2022

Nelle liste con le quali ogni partito di maggioranza conduce le sue trattative per i vice ministri e sottosegretari, i senatori abbondano. Ci sono senatori di Fratelli d’Italia (Butti e Fazzolari), senatori della Lega (Durigon, Bergonzoni, Ostellari) e senatori di Forza Italia (Barachini, Sisto). Molti resteranno delusi e non potranno prendersi la libertà di scoprire la trincea del senato. Un ramo del parlamento dove il governo dovrà muoversi con molta cautela. Il premio di maggioranza nascosto nel Rosatellum è stato generoso: con il 44% dei voti validi, il centrodestra si ritrova il 58% dei senatori eletti. Ma potrebbe non bastare quando i giochi si faranno duri.

Il voto di fiducia di mercoledì è la fotografia della situazione di partenza: 115 voti per il governo Meloni. Sono tutti quelli di cui dispone sulla carta, presidente La Russa correttamente escluso. Ancora più importante, le opposizioni hanno solo 79 voti (81 contando due assenti) visto che in 5 si sono astenuti (pesante, vedremo, l’astensione degli autonomisti). Perché la vita quotidiana di un’aula parlamentare non è fatta di maggioranze assolute, ma relative. Il centrodestra non ha per il momento nulla da temere nei passaggi ordinari in assemblea. A voler essere realistici, non ha da temere neanche nei passaggi straordinari, quelli della fiducia o quando è richiesta la maggioranza assoluta, come sullo scostamento di bilancio. Perché in quei casi ministri e sottosegretari possono essere richiamati. In genere non mancano mai.

Discorso tutto diverso invece nel lavoro delle commissioni. Dove i ministri e i sottosegretari senatori non vanno (e se vanno, in rappresentanza del governo, non votano) e devono essere sostituiti stabilmente. Per spiegare perché questa situazione potrebbe essere un problema per il centrodestra occorre passare ai numeri.

Dopo la riforma del regolamento, le commissioni permanenti al senato sono diventate dieci. Per la loro composizione che prevede – alla prima seduta – l’elezione dei presidenti e delle presidenti si aspetta la soluzione del puzzle dei sottosegretari. Ma i rapporti di forza sono già chiari: in ogni commissione ci saranno undici o dodici senatori di maggioranza, abbastanza per avere sempre la maggioranza assoluta. Una maggioranza però troppo stretta – due voti, compreso il presidente – proprio perché il numero di sostituti sarà alto: nove senatori sono già stati nominati ministri (Bernini, Calderoli, Casellati, Ciriani, Musumeci, Salvini, Santanchè, Urso e Zangrillo) e qualcun altro sarà fatto sottosegretario. Fatalmente, per mantenere le proporzioni e dunque il margine di sicurezza, diversi senatori di centrodestra dovranno essere assegnati a più di una commissione, così come accade ai senatori dei gruppi più piccoli (Azione, Autonomie, Noi moderati e gruppo Misto) che saranno costretti seguire due e in qualche caso tre commissioni permanenti diverse (per non parlare di quelle speciali, come l’annunciatissima sulla gestione della pandemia). E così sale la probabilità che la maggioranza possa trovarsi sguarnita ed essere battuta, dal momento che le diverse commissioni lavorano in contemporanea.

Come se la caveranno? È molto probabile che i casi in cui i presidenti saranno costretti a votare con la maggioranza – casi limite, fin qui, per la prassi – si moltiplicheranno. Ma è ancora più probabile che la maggioranza dovrà fare affidamento sulla benevolenza dei senatori di Azione-Italia viva – basterà che si assentino o che si astengano – e delle Autonomie che nel voto di fiducia si sono astenute. Molti non avevano capito il senso del richiamo di Meloni agli «standard di autonomia» della provincia di Bolzano nel suo discorso programmatico, diventato nella replica una promessa a «tutte le provincie e le regioni a statuto speciale». Ora è più chiaro.

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