Wwf sub è la divisione subacquea dell’associazione ambientalista, un gruppo che in Italia conta 60 diving center associati, per un totale di oltre 300 volontari che si dedicano alla pulizia del mare. Inoltre, entro l’anno, tra questi volenterosi sarà selezionata una task force di circa venti professionisti, che lavoreranno in collaborazione con i nuclei subacquei di carabinieri e guardia costiera. Il lavoro sarà mirato principalmente al recupero di rifiuti speciali e reti da pesca, il vero flagello dei mari. Su scala mondiale si stima infatti che siano presenti negli oceani oltre 640 mila tonnellate di attrezzatura da pesca, circa il 10% di tutti i rifiuti abbandonati in mare.

Leonardo d’Imporzano è il referente dei sub del Wwf: «L’idea è nata con la presidente Donatella Bianchi durante una giornata insieme in barca, nel 2018. Volevamo unire iniziative singole che già si svolgevano in varie località, ma che mancavano di un coordinamento e di un riferimento unico. Il Wwf voleva essere più vicino alla comunità subacquea e dare forza alla buona volontà dei singoli. All’inizio eravamo una decina di diving, principalmente liguri e siciliani, ma siamo cresciuti parecchio fin dal principio».

Il problema dei rifiuti in mare è sempre più pressante, anche senza considerare le reti da pesca. «Da un lato, rispetto ad anni fa, ci sono più aree marine protette e sono più tutelate, il che ha portato a un miglioramento delle condizioni in quei siti. Ma dove non c’è tutela, la spazzatura è aumentata per tutta una serie di ragioni – sottolinea d’Imporzano – Tra le altre non bisogna dimenticare che la maggior parte della spazzatura trovata in mare viene da terra, e che eventi catastrofici come alluvioni, o anche solo piogge particolarmente abbondanti trascinano moltissimi rifiuti. Ma i problemi sono diversi, pensiamo solamente ai cestini di raccolta: in molti casi sui litorali sono pensati più secondo ragioni estetiche che con un fine pratico, e il risultato è che quando sono pieni la spazzatura vola via. Ma c’è anche un fattore culturale: molta gente per esempio lascia il sacchetto vicino al cassonetto se lo trova pieno. Così, se c’è una mareggiata, i rifiuti vengono trascinati in acqua. Ma c’è un po’ di tutto, si trovano anche le mascherine: io ne ho raccolte cinque o sei solo nell’uscita di questa mattina, che è durata appena venti minuti».

UN PASSO IN AVANTI NELLA PULIZIA del mare lo si potrà fare con l’introduzione della cosiddetta legge “salvamare”, presentata come disegno di legge 1571 nel 2018 e approvata la settimana scorsa in via definitiva dal Senato. Si tratta di una semplificazione, di uno snellimento delle procedure di conferimento dei rifiuti, che aiuterà i privati a prendere iniziative meritevoli. «Questa legge è fondamentale, fino a oggi tutto quello che era pulizia dei fondali non era semplice da intraprendere. Innanzitutto perché banalmente i rifiuti recuperati in mare – senza alcuna distinzione- non potevano essere smaltiti normalmente. Per cui bisognava in ogni caso avvertire il comune, o l’ente parco e la capitaneria dell’iniziativa che si voleva intraprendere, e poi concertare il conferimento con l’azienda di smaltimento rifiuti. Questo ovviamente, oltre all’aspetto burocratico, aveva delle implicazioni anche economiche che qualcuno doveva assumersi. Da adesso in avanti invece rimarranno rifiuti speciali solo reti, copertoni, o oggetti come bici, frigoriferi e via dicendo. Ma la spazzatura per così dire “normale” potrà essere smaltita senza procedure particolari». Chi recupererà rifiuti di plastica in mare – ma anche in acque dolci- di propria iniziativa non potrà più arrivare all’estremo di essere denunciato per traffico di illecito di rifiuti e potrà portare la spazzatura in porto, per farla smaltire.

QUESTO AIUTERÀ SOPRATTUTTO i singoli subacquei o i centri meno organizzati, mentre per i recuperi più impegnativi entreranno in gioco appunto i “pro divers”. «Abbiamo pensato di specializzare un certo numero di subacquei che hanno già buone competenze per le pulizie più impegnative. Se parliamo delle reti da pesca, per esempio, non è assolutamente facile recuperarle. Con la nuova legge intanto chi ha perso o abbandonato la rete può avere meno remore a segnalare il materiale, ma rimane il fatto che una rete incagliata sul fondale è un bel problema. Intanto si lavora in profondità, per cui bisogna conoscere il fondale, le correnti, valutare la visibilità e capire di che tipo di rete stiamo parlando, quanto è lunga e cosa c’è dentro. E poi non è semplice identificare il tipo di intervento più adatto. Spesso le reti si attaccano a dei palloni che vengono gonfiati, di modo che la rete venga portata in superficie. Nel mentre viene legata con fascette da elettricista, per evitare che vada a catturare altri elementi o impigliarsi. Se non si sta attenti e non si è sufficientemente preparati si potrebbe anche finire nella rete, con tutti i problemi derivanti per patologie da decompressione: pensate cosa può succedere a un subacqueo che viene riportato in superficie senza rispettare i giusti tempi. Oppure il sub potrebbe rimanere incastrato sul fondale».

LE OPERAZIONI SARANNO SVOLTE con i nuclei subacquei di carabinieri e guardia costiera, il vantaggio per le forse dell’ordine sarà quello di avere del personale già formato, in appoggio per operazioni che non sono il core della loro attività. «E poi c’è la questione dei mezzi impiegati: una volta in superficie la rete va raccolta, ci vuole una barca con il verricello e non è che i diving possano pensare di fare da soli».

D’Imporzano ha arricchito di parecchio la propria bacheca di “trofei” in questi anni. «Ho raccolto 52 copertoni, ma soprattutto 2 chilometri di reti. Io vado sempre in giro con una sacca porta rifiuti: i diving in generale lo fanno un po’ per coscienza ambientalista e un po’ per tenere pulito il proprio orticello. Ma lentamente sta diventando una tendenza: un po’ come nella corsa, si sta diffondendo questa buona pratica di raccogliere quello che si trova in giro».

Leonardo è anche fondatore e presidente della 5 Terre Academy, un’associazione ambientalista che cerca tra le altre cose di fare educazione ambientale. «Ne parliamo fin dai corsi di apnea, d’altronde la situazione nei mari è peggiorata e ormai si vedono più rifiuti che pesce. Noi, come molti diving, organizziamo anche eventi a tema, come gare di recupero rifiuti. Non solo per subacquei, ma anche di nuoto in acque libere, dove la classifica finale è una combinata: una parte del punteggio è data dal tempo, l’altra dalla quantità di spazzatura raccolta. E poi abbiamo iniziato un progetto per produrre occhiali da sole fatti con plastica recuperata dal mare. La gestazione è un po’ lunga, perché vogliamo che la produzione sia quanto più possibile a filiera corta, altrimenti vanificherebbe lo sforzo intrapreso».

Il Wwf organizza in media circa 50 pulizie l’anno, e anche il subacqueo medio ormai sembra avere accolto la nuova missione. «D’altronde, una volta la subacquea veniva vista come qualcosa di avventuroso, fortemente connessa all’esplorazione – conclude d’Imporzano-. Oggi invece è un’attività più diffusa e dal significato ricreativo, per cui c’è spazio per accogliere almeno in parte una finalità ambientalista».