Il kitsch, scriveva Kundera, è «l’ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e di tutti i movimenti». Uno stratagemma per scacciare via con simulata leggerezza l’inaccettabile, di cui però non riesce a nascondere le impronte. Grosse come zampate, nel caso dell’imminente Eurovision Song Contest di Torino (10 -14 maggio, tre prime serate il 10,12 e 14 su Rai1), sessantaseiesima edizione di una rassegna che nel kitsch trova da sempre la sua ragion d’essere, facendosi emblema televisivo di un’Europa disgregata e artificiale.
Il trionfo dei Måneskin dell’anno scorso ha riportato la kermesse in Italia: l’ultima volta era stata nel 1991, e non era andata benissimo. Venti di guerra anche allora, dal Golfo ai Balcani; cambio di sede da Sanremo a Cinecittà, pressappochismo e leggerezza (per usare un eufemismo) anche tra gli organizzatori. Quest’anno, dopo l’inevitabile squalifica della Russia — il cui bacino d’utenza televisivo, per le casse dell’Unione Europea di Radiodiffusione, è prezioso come il gas — sembra doverosa la vittoria dell’Ucraina, rappresentata dalla Kalush Orchestra con Stefania, brano d’amore materno facilmente interpretabile come inno alla madrepatria. Blanco e Mahmood si dicono pronti a defilarsi come gregari all’ultima curva. Brividi.

Squalificata la Russia, gran favorita l’ucraina Kalush Orchestra con «Stefania»

ALL’ESC, SI SA, vince chi riceve più consensi dalle altre nazioni in gara: appare verosimile, quest’anno, il ribaltamento di quei blocchi di voto rivelati già nel 2006 da un saggio di Derek Gatherer sul Journal of Artificial Societies and Social Simulation. Alleanze collusive, le definiva lo studioso, illustrando coalizioni balcaniche, pirenaiche, vichinghe, e sottolineando episodici accordi anglo-francesi dopo la vittoria di Waterloo (inteso come brano degli Abba). In conclusione, emergeva la totale assenza di un sentimento europeo, represso dal nazionalismo e dalle alleanze — anche inconsce — tra stati vicini. Simili letture geopolitiche, peraltro, sono state recentemente riprese dalle monografie di Giacomo Canali (Capire l’Eurovision, Vololibero) e Dean Vuketic (Eurovision Song Contest. Una storia europea, Minimum Fax), che ingrossano le fila del discorso sul soft power.

INTERESSANTE e inquietante allo stesso tempo, ripercorrere le passate edizioni alla luce dell’attuale scenario bellico. Ci si accorge che vacillava già nel 2008, il Patto di Varsavia musicale creatosi dopo l’espansione dell’Eurovision verso est: un tabellone spaccato tra due fazioni, una guerra di bande tale da nauseare Terry Wogan, storico commentatore Bbc che avrebbe denunciato lo scandalo in diretta. Vittoria di Dima Bilan per la Russia, i cui caccia intanto sorvolavano la Georgia, che all’Esc dell’anno seguente avrebbe candidato una canzone dal titolo We don’t wanna put-in, esclusa proprio per imposizione russa.
E rivedendo certe scene, si possono leggere i segni della crisi in Crimea nel kitsch dell’enorme ruota da criceto azionata dal ballerino ucraino nel 2014, preludio di un’escalation che attraverso le contestazioni alle gemelle russe Masha e Nastia porta allo scontro diretto del 2016, quando il favoritissimo cantante russo Sergej Lazarev viene sconfitto dall’ucraina Jamala con 1944, allegorico brano sulla deportazione stalinista dei tatari in Crimea. Musica e atmosfere lontane anni luce dalle Wild Dances con cui la connazionale Ruslana aveva trionfato dodici anni prima, camuffando in veste filo-occidentale la tradizione di un Paese in cerca di passaporto europeo.
Anche quest’anno, con la mistura di folklore nazionale e rap americano della Kalush Orchestra, il biglietto da visita ucraino parla chiaro. Difficile sostenere che sia solo musica leggera.