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Cos’era la magia del cinema

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 19 gennaio 2018

Le mani della parrucchiera aggiustano i capelli di Alida Valli. Una piccola folla circonda le due donne. Ha preso posto tutto intorno.

Si girano sul Lago di Como gli esterni di Piccolo mondo antico. Tra poco Mario Soldati chiamerà di nuovo sul set l’attrice, che interpreta Luisa nella trasposizione cinematografica del romanzo di Antonio Fogazzaro, realizzata nel 1941.

Ancora. Una fotografia dell’anno 1942. Una via di Ferrara, sullo sfondo un torrione del Castello Estense. In secondo piano una fila di persone, in piedi, in abiti estivi. Tre o quattro giovani amiche si tengono l’una accanto all’altra. Un elegante giovanotto, il collo della camicia sbottonato, giacca scura, osserva immobile e, alle sue spalle, un tale si sporge per veder meglio.

In primo piano Elio Marcuzzo, le mani in tasca, indossa una blusa a maniche corte. Luchino Visconti, le braccia conserte, tiene sul fianco, con la destra, un megafono. In bianca canottiera un tecnico della troupe. E la macchina da presa. Osvaldo Civirani ha scattato la fotografia durante una pausa d’una ripresa di Ossessione mentre si gira in pieno centro, a Ferrara, e i passanti, incuriositi, fanno ressa in attesa che gli attori recitino di nuovo la scena.

Ricordando il cinema di quegli anni, «bisognava chiamare i carabinieri per tenere lontana la folla», racconta Mario Monicelli in una intervista ad Antonio Maraldi.

Monicelli rammenta: «C’era una grande curiosità. Si voleva vedere che cos’era la magia del cinema. Nessuno sapeva cosa fosse, come si costruisse. Vederlo realizzato nelle strade e nelle piazze dei paesi era un avvenimento. Fino a quegli anni il cinema si girava sempre in teatro. È stato il neorealismo che ha fatto uscire la macchina da presa. E il pubblico è rimasto affascinato dalle scene con gli attori agli angoli delle strade, che salivano o scendevano dall’autobus. Tutto avveniva davanti a loro. Con il neorealismo, dopo la guerra, il pubblico ha scoperto che il cinema nasceva sotto i propri occhi, in un’osteria, dentro un bar, in una piazza. Arrivare in un paese con la troupe era un grandissimo richiamo per tutti gli abitanti. In alcune occasioni era anche difficile girare, tenere a distanza la folla. C’era sempre qualcuno che entrava in campo».

Un ‘grandissimo richiamo per tutti gli abitanti’, una ‘grande curiosità’. Lasciamo ogni altra, pur opportuna, considerazione d’ordine sociologico che illumini il rapporto tra cinema e pubblico nell’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta.

Teniamoci al dato di fatto attestato dalle due fotografie e testimoniato da Monicelli.

Consideriamo come il luogo e l’ambiente quotidiano che corrispondono agli atti e ai modi del mio vivere – la strada in cui abito, il caffè che frequento – siano scelti e assunti come scena.

Trasposti così in uno spazio separato, precluso ai miei percorsi usuali, inserito in un altrove artificialmente costruito e coordinato ad un tempo fittizio che interrompe quello mio di ogni giorno. Ne deriva in me un disorientamento che aumenta quando osservo la diva famosa, l’attore celebre che agiscono nel luogo della mia quotidianità.

Dice Monicelli, «si voleva vedere che cos’era la magia del cinema». E una magia, per l’appunto, può essere svelata grazie ad uno sfasamento, ad uno spiazzamento.

Teniamo in conto, poi, che quei passanti, quei paesani non assistono alla resa cinematografica di un’azione drammatica, ma alla ripresa di una singola posa. Un dato propriamente cinematografico che però, all’occhio dello spettatore avventizio, richiama piuttosto la modalità di un frammento di teatro. Un segmento teatrale, sincopato e mozzo, concentrato in un gesto e in una battuta.

Si rivela, allo stato grezzo, una componente essenziale che solo nella fotografia e nel montaggio metterà capo allo specifico filmico, sarà cinema.

La singolare atmosfera teatrale del set cinematografico viene restituita in modo esemplare da uno scatto di Paul Ronald, fotografo di scena, nel 1954, di Senso. Nella parte di Livia Serpieri, Alida Valli è avvolta in un ampio scialle di cachemire. Davanti a lei Visconti. Indossa un trench. L’attrice si stringe nello scialle col medesimo gesto che il regista (la sua mano affilata tira una falda dell’impermeabile) le indica.

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