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Cose un po’ ricordate, un po’ risistemate, a volte nascoste: un romanzo epistolare di Letizia Muratori

Cose un po’ ricordate, un po’ risistemate,  a volte nascoste: un romanzo epistolare di Letizia MuratoriMimmo Paladino, «Senza titolo», 2006

Scrittrici italiane Un secolo visto a ritroso dagli occhi di una diciottenne, per ricomporre i pezzi del proprio essere al mondo: «Carissimi», da La nave di Teseo

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 16 febbraio 2020

Registrazioni di chiamate, spezzoni, sigle d’archivio, e-mail, messaggi in segreteria, monconi di video, biglietti, plichi arrotolati, vecchie carte topografiche, e soprattutto lettere: «lettere molto personali che vengono fuori dalla lontananza». Lettere «provocatorie, imbarazzanti», che lottano, vanno in competizione con l’inerzia di tutta quella materia incoerente, accatastata, fatta di cose un po’ ricordate, un po’ risistemate o nascoste, un po’ scordate. Molte cose, molta materia: tutto un secolo visto a ritroso, come da un cannocchiale rovesciato, con l’occhio di una diciottenne, Nurit, che vuole rimettere a posto i pezzi del proprio essere al mondo – scoprire, cioè, qualcosa sul proprio padre biologico, da poco scomparso – e per farlo finisce col mettere a soqquadro tre generazioni di una famiglia intera, divisa tra Roma, Haifa e Tel Aviv: i fratelli, i figli e i nipoti, e le loro compagne e compagni di vita, sparpagliati, complicati, stanati uno per uno ma tenuti quasi sempre a reciproca distanza di sicurezza.

Carissimi di Letizia Muratori (La Nave di Teseo, pp. 222, € 17,00) è proprio un libro costruito sulla distanza: quella che serve per capire, l’estraneità necessaria per dire il vero; o la schermatura che si usa con un vicino di posto quando si viaggia in treno. O la distanza nel tempo, e il racconto che esplora a ritroso i contesti che non possono appartenere alla giovanissima Nurit: la vita nei kibbutzim, l’immigrazione in Israele (la aliyah, la «salita»), il rastrellamento del ghetto, evitato per un soffio da una generazione di scampati, che veniva al mondo proprio nei giorni delle leggi razziali.

Ognuno dei personaggi – i componenti della famiglia Amati – è sorpreso mentre vive, come avrebbe detto García Márquez, una vita pubblica, una privata e una segreta. Rispondono tutti, ognuno come può, alla stessa chiamata, e interagiscono sempre a rigorosa distanza: taglienti, impauriti, ironici, rassegnati, divertiti. Nurit piomba in mezzo a loro come un’estranea, un’imprevista, un’arrembante ragazzina con le idee fin troppo chiare, come rimbalzata dai desideri del passato. Bussa a tutte le porte con decisione, persino con arroganza, e vede mano a mano trasformarsi la storia del padre biologico e dei suoi discendenti in una specie di saga, dove gli eroi appaiono segnati da un’iniziazione, da una missione mai compiuta che rimanda a un’origine indecifrabile.

Da più di un decennio, Muratori è una sottile rievocatrice di saghe: nei suoi romanzi spesso una voce adolescente scortica la superficie del mondo reale con le unghie colorate delle streghe, con le dita felpate delle bambole o con gli artigli dei cavalieri. Da Tu non c’entri (2005) alla Casa madre (2008), questa tensione allegorica che si impara da bambini si schianta quasi sempre contro l’ottusa impenetrabilità dei genitori, delle istituzioni, o di chi per loro. C’è un segreto latente, e quasi sempre la chiave di quel segreto è la morte: quella di qualcuno in particolare, di un genitore, di una figura del passato; oppure, più spesso, quella dell’infanzia stessa, buttata nella palude dell’esistenza quotidiana. Qui, invece, in questo romanzo epistolare solo in apparenza un po’ vintage e in realtà architettonicamente sorprendente, come una serie di stanze risonanti l’una dentro l’altra, la chiave è l’origine: ciò che ha preceduto l’istante, la combinazione iniziale della vita.

Nurit ha i suoi mezzi, le sue armi, per farsi capire: sta girando un documentario destinato ad arrivare al punto zero di tutta la vicenda, che non apparterrà più solo a lei, alla sua curiosità di ultima arrivata. La nativa digitale metterà le mani – anzi, le dita – sulla propria nascita, non per carpirne il segreto – non c’è nessun segreto, stavolta, nessun pezzo mancante – ma per renderla una storia, un silenzioso effetto domino, una ramificazione di cose e di dettagli concreti: per salvarla da quella specie di «sentimento di irrealtà», come lo avrebbe definito Ottiero Ottieri, che anche oggi, nella grande sfera digitale, sembra schiacciare tutte le distanze necessarie alla visione, alla comprensione, alla memoria.

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