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Cose piccole, magiche, di Adamo l’accidioso

Cose piccole, magiche, di Adamo l’accidiosoAdam Elsheimer (copia da), "La disperazione derisa di Cerere", Madrid, Museo del Prado

Nati sotto Saturno / Seicento a Roma: Adam Elsheimer Perfezionista solitario, lentissimo nel lavoro, il francofortese ha lasciato un pugno di opere, microcosmi perfetti impregnati di una luce «psicologica» che molto deve, nel pieno delle rivoluzioni naturalistiche, ai veneti del Cinquecento. Morì a 32 anni, nel 1610: Rubens lo pianse, con le lacrime agli occhi

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 8 agosto 2021
Hendrick Goudt (da Adam Elsheimer), “La disperazione derisa di Cerere”, part., 1610, collezione privata

 

«Dovrebbe per tale perdita vestirsi di lutto stretto tutta la nostra professione, la quale non ritroverà facilmente un par suo che, al giudicio mio, in figurette, et in paesi et in qualsivoglia circostanza non ebbe mai pari. E prego il Signor Idio che voglia perdonare al Signor Adamo il peccato d’accidia, mediante il quale ha privato il mondo di cose bellissime, causandosi molte miserie».
Pieter Paul Rubens, da Anversa, salutava così la prematura scomparsa dell’amico Adam Elsheimer, sopraggiunta a Roma nel dicembre del 1610, a soli trentadue anni. Lo ricordava con le lacrime agli occhi, con una punta di veleno nella penna: la particolare indisposizione di cui soffriva «Adamo tedesco» doveva infatti apparirgli come il peggiore tra i vizi capitali, avendo ridotto l’artista «in disperatione, ove poteva colle proprie mani fabricar una gran fortuna».
Diversamente dal fiammingo, che affrontava la vita e la pittura con impetuoso entusiasmo, Elsheimer era un perfezionista indolente e solitario, insuperabile nella miniatura e nelle «cose piccole», da lui eseguite con un tratto mirabilmente levigato e trasparente. I paesaggi del tedesco, luminosi ed intensi, sono animati da figure brulicanti dipinte in punta di pennello, in un immaginario incantato e istintivamente filosofico che preannuncia il Sublime romantico con due secoli di anticipo.
Le opere di Elsheimer, spesso grandi poco più di un palmo, sono dei microcosmi perfetti nei quali ogni dettaglio è il risultato di una cura maniacale: dei giardini all’italiana nel mezzo della giungla di una vita in frantumi. La proverbiale lentezza di Adam nel dipingere, rimproveratagli da tutti i biografi, era acuita dal suo temperamento flemmatico dominato da un eccesso di bile nera: egli «meditava a lungo sul suo lavoro – racconta il conterraneo Joachim von Sandrart – stando sdraiato o seduto per giorni e giorni davanti a degli alberi; se li imprimeva così bene nella mente che a casa poteva dipingerli senza bisogno di schizzi. Questo metodo così faticoso finì per stancarlo, e accrebbe la sua naturale inclinazione alla malinconia». L’artista, infatti, «si avvilì talmente che cadde malato», poiché, secondo lo spagnolo Jusepe Martinez, «era solitario e immerso in sé medesimo, e camminava per le vie tutto assorto, senza parlare con nessuno a meno che altri non gli si rivolgessero per primi».
Il riscatto sociale e la continua rincorsa delle commissioni pubbliche, da sempre in cima alle ambizioni dei grandi maestri, furono per Elsheimer dei traguardi irraggiungibili: timido, maniacalmente riflessivo, volubile e inquieto, il pittore si ritagliò una nicchia molto ristretta di estimatori e la sua rimase a lungo una rivoluzione silenziosa, destinata al godimento privato di pochi raffinati collezionisti: i Principi Colonna, i Borghese, i Barberini o il cardinal del Monte, solo per citarne alcuni.
Mentre Annibale e Caravaggio meravigliavano il mondo con le loro rivoluzionarie interpretazioni del naturale, il tedesco aggiornò rapidamente il suo retroterra transalpino – a Francoforte era stato allievo di Philipp Uffenbach – grazie allo studio dei maestri veneti del Cinquecento e dei nuovi campioni romani. Anche per lui, del resto, la luce costituiva l’elemento unificante della pittura, una luce caricata di valori psicologici più che mistici, posta spesso in contrapposizione con l’ombra e con le tenebre.
Quasi mai Elsheimer lasciò trapelare dalle sue opere i tormenti interiori che lo affliggevano, all’interno di un quadro clinico – diremmo oggi – compromesso da una grave forma di depressione che lo avrebbe portato alla rovina. Gli abissi dell’artista sembrano affiorare in alcune sue favole mitologiche dipinte a lume di notte, qualificate da forti contrasti nella resa dei toni smaltati. A questo tipo di produzione apparteneva la perduta Disperazione derisa di Cerere, realizzata tra il 1605 e il 1607, che possiamo annoverare tra i notturni più belli del pittore assieme alla Fuga in Egitto di Monaco di Baviera e all’Aurora di Braunschweig. Questo sconosciuto apice di Elsheimer è oggi noto attraverso il filtro di alcune copie antiche e di qualche accurata stampa di traduzione, come quella che nel 1610 Hendrick Goudt dedicò a uno dei collezionisti più sofisticati del tempo: il cardinale Scipione Borghese, nepote di papa Paolo V. Si tratta di una composizione straordinariamente anticonvenzionale, calibratissima nella resa luministica e contraddistinta da un’inquietante tono stregonesco: una copia di quell’incisione – «stampa della Cerere d’Adamo in raso con cornice nera» – è documentata a Roma, non a caso, nelle stanze del cardinale Stefano Pignatelli, intimo amico di Scipione fin dai tempi dell’università e destinatario di numerosi doni del prelato.
L’episodio, tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, era sconosciuto ai più: durante la ricerca della figlia Proserpina rapita da Plutone, Cerere aveva chiesto ospitalità e ristoro a una vecchia derelitta. Quest’ultima, più volte ricalcata da un altro fuoriclasse del piccolo formato come Carlo Saraceni, è presentata come una torva fattucchiera che offre da bere alla dea, mentre il suo figlioletto Stellione la deride per l’ingordigia datale dalla gran sete e per aver gettato alla rinfusa il carro e la torcia utilizzati nelle sue ricerche. Elsheimer non scelse di rappresentare il momento in cui Cerere si vendicò, tramutando l’odioso fanciullo in una lucertola, bensì quello dell’umiliazione della dea, rivelandone tutta l’umana fragilità. Nell’espressione di un cupo pessimismo sulla precarietà dell’esistenza, il pittore rivelava sé stesso, come avrebbe fatto Salvator Rosa cinquant’anni più tardi, aprendo il suo cuore all’amico Giovan Battista Ricciardi: «le vicende umane altro non sono che una mostruosa miscela di gioie e dolori. Vi siete appena rallegrato di chi è venuto alla vita, che dovete tremare per chi è in pericolo di lasciarla. Potete, dunque, strepitare fin che vi pare: così vogliono le stelle, i fati, il cielo». Come se non bastasse, in secondo piano, un calderone sorvegliato da due contadini – tra i fumi, i vapori e le scintille di uno scoppiettante rogo acceso – sembra preludere a un arcano sortilegio…
L’immagine doveva essere simile, per intonazione e atmosfera, a quella «carta finta di notte con una maga e con atti di incantesimi, che rappresentano gli horrori dell’ombre e gli spaventi dell’arte», celebrata da Giovanni Baglione nella sua biografia dedicata al pittore tedesco. Un tema, quello del rovello magico-alchemico, che fu particolarmente caro a Elsheimer e ai suoi amici romani. Non a caso, nell’inventario dei beni di Rubens, figurava ancora nel 1640, tra le cose da lui più amate, «une Cérès á la nuit, d’Adam Elsheimer»: quel dipinto, oggi conservato al Museo del Prado, è la copia fedele dell’enigmatico capolavoro di Adamo bramato da molti intendenti, che non risponde ancora all’appello.

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