L’incipit dei Sepolcri di Foscolo risuona alla nostra mente come un antico refrain: «All’ombra dei cipressi e dentro l’urne / confortate di pianto». Contro l’abitudine di una filastrocca quasi automatica, la potenza dei versi va ascoltata ritrovando la veemenza del significato, drammatico e austero, che quei versi mettono in gioco.

La questione che sta al centro del carme foscoliano (e carme va inteso secondo la sacralità che il termine contiene) riguarda l’onnipotenza della morte e la possibilità di contrastare il sonno che porta con sé. La natura delle cose umane non prevede eccezioni. La condizione di ogni vita è finire e niente può contrastare questa fatalità. I principi della materia, illustrati da Epicuro e messi in poesia da Lucrezio, sono assoluti. Non ci sono eccezioni possibili. La vita dei corpi finisce e tutto muore. Lucrezio «prova la mortalità dell’anima, e la necessità quindi di godere soavemente della vita mentre dopo morti torniamo a rimescolarci nella Materia. Il non esservi altro mondo dopo questo toglie ogni principio di religione, alla quale sogliono rifuggire i mortali nelle loro disavventure» (Foscolo).

LA FATALITÀ DELLA MORTE cancella la speranza di rinascere in un altrove soprannaturale ma non basta. Lascia aperto il desiderio di restare in vita, se non come corpo, come memoria, idea, esempio, che si fondono con l’esistenza concreta dei sopravvissuti.

Accanto all’atomismo dei maestri greci e latini, Foscolo aggiunge un’altra lezione, che non cancella la prima, ma la integra. Dalla Scienza nuova di Giambattista Vico, assorbe l’idea capitale della civilizzazione, che ha educato nel tempo le umane belve a esser pietose. Nozze, tribunali, altari, insieme con la sepoltura, costituiscono i fondamenti di questo passaggio. L’humanitas, che si oppone alla ferocia degli istinti, trova in queste istituzioni la sua forma. E, come Vico indica, ha la sua stessa etimologia nel verbo humare, che vuol dire appunto seppellire.

L’ESISTENZA FISICA degli uomini, mortale per natura, può così prolungarsi in una sequenza più lunga, che coincide con la vita intera delle comunità. Questo permanere di tradizioni, di memorie, di esperienze esemplari avviene a patto che ci sia un’umanità coraggiosa, che abbia desiderio di obiettivi grandi e si nutra di modelli di virtù. Se questa possibilità si spezza, non c’è nessuna speranza e allora il sonno della morte ha veramente vinto.

A POCHI ANNI dai Sepolcri, a Recanati, negli anni Venti dell’Ottocento, Giacomo Leopardi rovescia le tesi foscoliane. L’idea di comunità, nei cui spazi la memoria si prolunga, sparisce. La poesia non celebra dei ed eroi, ma consola con il canto. Diventa una qualità universale, che si riferisce alla più nuda esistenza. Essa dà espressione alle emozioni che ogni individuo prova, tramutando gli stati dell’anima in puro canto.

La lirica moderna si identifica con la trama delle illusioni e del disinganno, senza poter fissare, al di là del proprio ciclo mortale, la continuità di destini collettivi. Nel panorama della storia europea come Leopardi la disegna, dalla fine del XV secolo non sopravvive in nessun luogo «una vita e un interesse nazionale», vale a dire «vita e interesse che risiede veramente nel popolo». Nell’evoluzione dei paesi si è prodotto un cataclisma che ha cancellato ogni memoria: «Le nazioni non hanno eroi; se ne avessero, questi non interesserebbero il popolo; e gli antichi che si avevano, sono stati dimenticati da’ popoli, da che questi, divenendo stranieri alla cosa pubblica, sono anche divenuti stranieri alla loro storia».

Nel Bruto minore il distacco da modelli eroici è definitivo. Il tema che emerge riguarda i contenuti stessi degli esempi antichi e il significato della loro testimonianza. I protagonisti del mondo passato non promuovono valori sociali e virtù positive, ma, al contrario, denunciano l’assenza di ogni ragione che dia durata alle cose umane. Non c’è più nessun filo che connette l’età grandiosa degli esempi a un futuro possibile.

LA SEMANTICA in cui s’incarnava una filosofia della storia monumentale e propositiva è drasticamente capovolta. I padri, i fatti egregi, il nome e la memoria, la tomba e le lagrime, in altre parole l’intera cosmografia foscoliana, sono diventati mitologie inutili: rimedi che niente possono di fronte alla potenza del vero. Crollata ogni interazione tra il singolo e la parte, sopravvive la solitudine di chi è stato abbandonato dagli dèi e si ritrova a commemorare l’idea stessa di virtù. L’universo intero è destinato a sparire fino a quando «un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso».
Eppure, la coscienza della fragilità diventa, per Leopardi, il modo per riscoprire una forma nuova di comunità, intesa al comun bene e fondata sulla «società veramente primordiale, e naturale alla specie umana senza principato, senza soggezione, senza disuguaglianza».

Natura e artificio, tema della rassegna

Il brano che pubblichiamo è tratto dall’incontro di Matteo Palumbo «Natura e storia: Lucrezio tra Foscolo e Leopardi» (con Anna Bonaiuto), nel quale si esploreranno gli echi lucreziani in Leopardi (domenica 2 ottobre, ore 16, Auditorium del Mann, Napoli). La conferenza si terrà nella cornice di «Fuoriclassico», dal 30 settembre al 2 ottobre al Museo archeologico nazionale di Napoli. Questa quarta edizione, intitolata «La natura e l’artificio», ragionerà attorno ai concetti di naturale e artificiale. La rassegna è una produzione del Mann in collaborazione con l’Associazione culturale «A voce Alta», presieduta da Marinella Pomarici; Gennaro Carillo (ordinario presso il Dipartimento di scienze umanistiche dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli) è il curatore.