Coscia, miracolo al Santa Tecla
Jazz/Il fisarmonicista, 92 anni, ripercorre la sua lunga carriera, nata nello storico locale milanese «Mi sono appassionato al genere afroamericano durante la guerra, ascoltando dischi di Louis Armstrong, Benny Goodman e Duke Ellington»
Jazz/Il fisarmonicista, 92 anni, ripercorre la sua lunga carriera, nata nello storico locale milanese «Mi sono appassionato al genere afroamericano durante la guerra, ascoltando dischi di Louis Armstrong, Benny Goodman e Duke Ellington»
Parlare di Gianni Coscia, novantatré anni il prossimo 23 gennaio, significa rivivere quasi quarant’anni di storia jazzistica «in comune» da quando esce il suo primo long playing L’altra fisarmonica (1985) che stupisce per quel suono moderno, grazie a uno strumento – la fisarmonica, prima a tastiera, poi a bottoni – che nell’immaginario popolare si collega quasi esclusivamente al ballo liscio o al peggior folk. All’epoca, nelle vicende della cosiddetta black music non solo afroamericana ma nelle variegate declinazioni europee, si conoscono a malapena fisarmonicisti jazz quali Gorni Kramer, Art Van Damme e Mat Mathews (di cui è quasi impossibile procurarsi i dischi), mentre Antonello Salis, Richard Galliano, Renzo Ruggieri, Guy Klucevsek sono di là da venire.
L’ellepì di Coscia lascia stupefatti per un altro elemento presente in copertina: le poche note introduttive nientemeno che di Umberto Eco. Proprio lui, Eco, uno dei più grandi «maestri», nel senso di riferimenti culturali, grazie a libri di saggistica o di narrativa o alle «bustine», senza mai però lasciare un suo riferimento al jazz! Gianni dirà, molti anni dopo, che Umberto era compagno di banco al liceo, nell’immediato dopoguerra: il futuro semiologo inizierà il fisarmonicista alla musica classica, mentre Coscia gli farà apprezzare lo swing e il bebop: insieme scriveranno addirittura una canzone, che oggi viene eseguita come bis nei recital in solo.
Incontrato nella natia Alessandria, dove è tornato a vivere dopo un lungo periodo milanese, Coscia anticipa addirittura le domande: «Sono il ‘numero uno’ nel jazz oggi in Italia – dice -, ovviamente come età, avendo io novantadue anni già compiuti, però a differenza di altri jazzisti lavoro molto meno, quello che mi spaventa sono i viaggi. Credo poi di avere un altro primato e mi spiego: nel 1942 vengo sfollato assieme alla famiglia a Bassignana nell’alessandrino, vicino al Po, e lì ho avuto la fortuna di conoscere un cugino calciatore nella Roma che proprio nel giugno 1942 aveva vinto il suo primo scudetto; poi il campionato venne sospeso e ripreso solo nel 1946, ma lui di fatto perse gli anni migliori; comunque è giunto da Roma a Bassignana portando con sé una pila di dischi di jazz a 78 giri, e io ragazzino di undici anni mi misi ad ascoltare Louis Armstrong, Benny Goodman, Duke Ellington, nomi che spesso sull’etichetta venivano tradotti in italiano e dunque diventavano Luigi Braccioforte, Beniamino Buonuomo o Del Duca; altri invece erano dischi originali, e risultò una collezione per me molto importante, poiché questo tipo di conoscenza diretta del jazz non era tanto normale per quegli anni; e questo è il mio altro primato: in un mondo in cui tutti i miei amici ignoravano questa musica, io undicenne la conoscevo quasi tutta, l’ascoltavo liberamente sul grammofono; il fascismo non metteva in galera chi ascoltasse jazz a Bassignana, aveva ben altri problemi, o forse perché un figlio del duce, Romano Mussolini lo ascoltava con passione tant’è che è poi diventato un buon pianista di jazz moderno».
Ma Gianni imparò a suonare il jazz non solo attraverso i dischi: «No, a questo punto ricevetti lezioni di musica e solfeggio, già destinate alla fisarmonica, strumento che mio padre mi regalò, mentre io sentendo quei dischi volevo già suonare la tromba o il sassofono. Mi dava lezioni di musica un trombettista che era stato direttore della banda e anche delle fanfare dei soldati, tornato a casa dopo sei-sette anni di servizio militare; io mi sono rassegnato alla fisarmonica; il cugino mi faceva sentire anche Gorni Kramer che suonava così, in stile jazz, su alcuni dischi poi scomparsi del tutto sul mercato; ne avevo parlato di recente con Adriano Mazzoletti, scomparso di recente, che mi ricordava che appunto Kramer incideva, già prima della guerra, sia standard sia original e non a caso l’unico poi, di recente, a documentarlo e ristamparlo è stato proprio Mazzoletti nei cd Riviera Jazz Records».
Intanto finisce la guerra, arrivano gli americani che spesso regalano i V-discs o hanno con sé autentiche orchestrone, con cui i giovani, smessi i panni dei partigiani, imparano a ballare il boogie; il clima d’euforia che si respira nel Nord Italia liberato dai nazifascisti è incredibile, come rammenta benissimo Coscia ormai quattordicenne: «Io torno ad Alessandria dove nel 1945 sorge già il primo hot club, citato addirittura da Marshall Stearns, professore alla Columbia University, quando parla dell’Italia, raccontando che le prime associazioni jazzistiche nel nostro paese, dopo il 25 aprile, sorgono in tre città come Padova, Milano e appunto Alessandria, qui per la presenza di un appassionato che gestiva un cinema e faceva arrivare i dischi direttamente dagli Stati Uniti; è da lui che ho ascoltato per la prima volta il grandissimo sax tenore Coleman Hawkins».
Durante gli ultimi anni di liceo e i primi di università, Coscia inizia a esibirsi in pubblico con alcuni complessini dove suona un po’ di tutto sempre tenendo fede al jazz primo amore: «(…) Poi nel 1952 vado al Teatro Lirico Milano a sentire la formazione di Stan Kenton che mi appare subito un’ottima orchestra, ingiustamente dimenticata, benché abbia dato un impulso notevolissimo alla big band moderna; all’uscita del concerto, nella hall c’era Gorni Kramer assieme a critici e musicisti entusiasti. Pino Maffei si avvicina al mio accompagnatore molto più anziano di me e gli dice che stanno organizzando un concorso per giovani al Santa Tecla, e gli domanda se c’è qualcuno di Alessandria che potrebbe partecipare: e io vengo subito additato! Ti ricordo che il Santa Tecla a Milano, dove io andavo spesso, era uno dei pochi locali a organizzare jam session con gli allora jazzisti ventenni, trentenni come Giorgio Gaslini, Engel Gualdi, Gil Cuppini e Giulio Libano; il Basso e Valdambrini Quintet poi Sextet (con cui ho suonato in seguito) era già su un altro pianeta a livello di popolarità».
Per un ragazzo di 21 anni trovarsi coinvolto in tale iniziativa dev’essere, in quel preciso istante, qualcosa di straordinariamente avventuroso: «Dunque, Maffei prende nota su un pezzo di carta del mio nome e indirizzo e quando mi chiede che strumento suono e io gli rispondo ‘fisarmonica’, rimane come paralizzato e comunque mi dice ’vieni lo stesso’. Entrando, la sera del concorso, al Santa Tecla, accompagnato da un batterista, sono subissato dai fischi del pubblico al limite dell’insulto appena vedono che abbraccio la mia fisarmonica; tanti spettatori mi prendevano in giro, dicendomi di suonare La cumparsita o Amico tango. Tuttavia rimangono con me sul palco Casellato al pianoforte e De Filippi alla chitarra, mentre di sotto in platea ci sono questi assi della critica ad ascoltarmi, addirittura gente come Giancarlo Testoni e Arrigo Polillo, oltre Maffei, il quale dice agli ascoltatori, ’Signori, è una questione di educazione: lasciatelo suonare, fischiatelo semmai dopo, se non vi è piaciuto’. Io ho molta apprensione, ’Cosa suoniamo?’ mi chiedono gli altri del gruppo, ’Quello che volete’ rispondo quasi alla disperazione».
A quel punto, quasi in simultanea la band attacca il noto standard How High the Moon, senza neanche chiedersi la tonalità o il tempo: «Ma dopo qualche assolo, il pubblico si calma e addirittura si mette a battere le mani; insomma ricevo diversi applausi. Polillo viene addirittura con noi fino alla stazione portandomi anche la fisarmonica. Poi, un mese dopo, mi arriva un telegramma in cui c’è scritto che avevo vinto un concorso, La leva dei giovani! Ci fu anche una bella recensione su Musica Jazz di Maffei in cui scrisse, ’mai sentita l’italianissima fisarmonica suonare con tanto swing’. Da lì è partito tutto. Pensa se quella sera non fossi andato al Santa Tecla!».
LA BIOGRAFIA
Gianni Coscia nasce ad Alessandria il 23 gennaio 1931 e nonostante i giovanissimi esordi alterna il lavoro in banca all’attività musicale per circa un quarantennio, pur guadagnandosi una menzione speciale nel 1974 per «doppiare» Topo Gigio in Quel mazzolin di fiori a Canzonissima. Nel 1989 con il secondo posto dell’album La briscola al Top Jazz, gli vengono spalancate le porte del jazz internazionale, senza peraltro disdegnare altre musiche, dal nuevo tango di Astor Piazzolla all’opera espressionista Mahagonny di Kurt Weill e Bertolt Brecht, dalle due tournée giapponesi di Milva al progetto di uno spettacolo sull’antisemitismo firmato col compositore Luciano Berio. A partire dal disco Radici assieme a Gianluigi Trovesi (clarinetto basso) si consolida un duo folk jazz, tuttora attivo, che registra per l’etichetta tedesca Ecm diversi album, tra cui il fortunatissimo In cerca di cibo (1999) e il recente Regina Loana (2018) dedicato a Umberto Eco. La fisarmonica di Coscia si ascolta infine in canzoni di Guccini, De André, Celentano o nei dischi jazz di Rava, De Aloe, Sellani, Gaslini.
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