Cosa vuol dire sentirsi del Pd?
Le recenti primarie in Liguria e in Campania hanno prodotto tante polemiche ma nessuna vera riflessione su cosa sia divenuto, oramai, questo strumento. Tuttavia Renzi sembra essersi finalmente accorto che […]
Le recenti primarie in Liguria e in Campania hanno prodotto tante polemiche ma nessuna vera riflessione su cosa sia divenuto, oramai, questo strumento. Tuttavia Renzi sembra essersi finalmente accorto che […]
Le recenti primarie in Liguria e in Campania hanno prodotto tante polemiche ma nessuna vera riflessione su cosa sia divenuto, oramai, questo strumento. Tuttavia Renzi sembra essersi finalmente accorto che qualcosa non va e ha lanciato un proclama: addio all’idea di un «partito americano», torniamo al partito «pesante», gli iscritti devono «contare». Vedremo se seguirà qualcosa di concreto; lo scetticismo è d’obbligo perché non si affronta un nodo cruciale: un’idea di partito non è mai solo un modello organizzativo, presuppone un’idea di democrazia. L’ideologia populistico-decisionista che accompagna la «narrazione» renziana mal si concilia con l’idea di un partito che sia vero luogo di discussione e partecipazione e che sia definito, innanzi tutto, da una chiara identità politico-culturale. È tipico del provincialismo italico pensare al modello americano come a un partito leggero, privo di un profilo ideologico: a tal proposito, si potrebbe consigliare la lettura di un libro da poco uscito in Usa (Russell Muirhead, The Promise of Party in a Polarized Age, 2014). Un testo che – insieme ad un altro bel libro, quello di Nancy L. Rosenblum, On the Side of Angels. An Appreciation of Party and Partisanship, 2008 – ci offre l’appassionata riproposizione di una teoria normativa dei partiti e di un’etica della partisanship. E che ci ricorda un dato: da oltre un ventennio è in atto una polarizzazione ideologica, alimentata soprattutto dall’ala conservatrice dei Repubblicani, a cui i Democratici hanno stentato a reagire e a cui non si son potuti sottrarre. Sentirsi democratico o repubblicano, negli Usa (come lo era, nell’Italia della «prima Repubblica», dirsi democristiano o comunista) continua ad essere il punto di condensazione di una serie di valori, principi, convinzioni etiche e morali (più o meno consapevoli, riflessive o coerenti) attraverso cui un individuo agisce e interagisce come attore di una comunità politica.
È vero che esistono elettori non allineati o che si dichiarano indipendenti; ma questi sono soprattutto elettori poco informati, poco coinvolti, propensi all’astensione. Non sono questi elettori a determinare il clima d’opinione che si crea nella sfera pubblica e che pesa poi sulle decisioni politiche. Essere democratico, negli Usa, implica una memoria storica e un’identità di cultura politica: significa sentirsi legati alla stagione del New Deal e a quella della lotta per i diritti civili; sentirsi repubblicano, a sua volta, significa ancorarsi ad alcuni pilastri della tradizione americana, al profilo ideologico forgiato dalla stagione di Reagan (a partire dalla celebre affermazione: government is not the solution to our problem. Government is the problem).
Ebbene, qualcuno è in grado di spiegarci cosa vuol dire, oggi, in Italia, sentirsi «democratico»? quale è il profilo ideale, la filosofia pubblica che ispira il Pd (e che si riflette poi nelle singole scelte programmatiche)? E quali sono, soprattutto, le ideologie implicite che guidano, ad esempio, un atto di governo come il Jobs Act o le scelte di politica istituzionale?
Questo tratto indistinto e magmatico (nel migliore dei casi) del profilo ideologico del Pd trova il suo corrispettivo nelle formule organizzative. Si prenda la questione delle primarie: è ancora credibile quella immagine a lungo accreditata che presenta le primarie come uno strumento di partecipazione democratica? O piuttosto, inscrivendosi entro un sistema politico del tutto destrutturato e sfarinato, e combinandosi con un Pd che oramai si configura come un partito in franchising, coalizione instabile di potentati locali, le primarie sono un fattore che sta peggiorando la qualità della democrazia italiana?
C’è un’insopportabile demagogia che accompagna i discorsi sulle primarie: chiunque si azzardi a proporre il tema di una qualche regolamentazione di questo istituto viene subito additato al pubblico ludibrio come fautore di un’idea di partito vecchia e chiusa. Nell’ubriacatura populista che domina la scena pubblica italiana, si esalta l’assenza di ogni e qualsiasi mediazione tra i leaders (nazionali e locali) e il cittadino-elettore: sparisce ogni idea di partito come associazione volontaria di individui che condividono un insieme di principi e di valori e cercano di tradurli in programmi e in azione politica. Il vizio d’origine si può trovare nella stessa formula che apre lo statuto del Pd («un partito di iscritti e di elettori»), ma quanto accaduto successivamente ha solo peggiorato il quadro. Trasformatosi definitivamente il Pd in un partito in cui domina una logica office-seeking (ovvero, quel che conta è solo la competizione per la conquista delle cariche pubbliche), le primarie sono diventate l’unico strumento che regola il conflitto interno, che solo in minima parte (in qualche caso, nelle dinamiche parlamentari, e molto timidamente, come ricordava Prospero su queste pagine) si esprime intorno a qualche opzione alternativa sul piano politico e ideale. Per il resto è la guerra di tutti contro tutti: e non si va tanto per il sottile. Questo modello di primarie, (scriteriate e sregolate, più che «aperte»), contribuiscono a distruggere quel poco che ancora rimane che possa essere definito proprio di una qualche idea di partito. Le primarie potrebbero anche essere uno strumento democratico, ma a condizione che il soggetto che le adotta abbia un qualche confine organizzativo, ossia che a proporle e a praticarle sia un soggetto identificabile come un attore unitario che sceglie determinate regole per la selezione dei propri candidati, avendo alle spalle un qualche collante ideale e politico.
Anche su questo punto, il libro di Muirhead è molto utile, offrendo un quadro aggiornato del dibattito sulle primarie, da sempre molto acceso negli Usa: raccontandoci, ad esempio, come anche alcune sentenze della Corte Suprema abbiano ribadito il diritto, per un partito, di adottare una forma di primarie che ne affermi il profilo autonomo come libera associazione e salvaguardi il ruolo degli aderenti. In particolare, rimane cruciale una sentenza con la quale la Corte ha dato ragione al partito democratico californiano, laddove questi si era opposto ad un’iniziativa legislativa mirante ad istituire, in modo vincolante, le cosiddette primarie blanket, ovvero quella formula estrema di primarie nonpartisan che annulla ogni possibile selezione e identificazione degli elettori.
In Italia, si metterà davvero mano al famoso «albo degli elettori»? Vedremo, ma c’è da dubitare degli effetti concreti che potrebbe produrre questa misura, esigendo – per essere una cosa seria – una cura e una manutenzione organizzativa, e una certezza delle regole che l’attuale struttura del Pd è ben lungi dal poter garantire. Ma, soprattutto, rimane il nodo di fondo: in assenza di un partito che definisca i propri confini ideali e politici – che dia un senso al suo essere parte contro altre parti – , e avendo anzi a che fare oramai con un partito che è un confuso assemblaggio di feudatari e di vassalli, un partito centrale che funge da calamita per tutti i più disparati gruppi di potere – essendo questo, oramai, il Pd, – si può facilmente prevedere che una discussione tutta e solo organizzativa lascerà il tempo che trova.
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