Cosa resta del razzismo nell’America di Obama
L’iconografia razzista e i codici linguistici dei benpensanti sono rimasti intatti Uno studio recente mostra come i bambini neri siano sanzionati il doppio degli alunni bianchi
L’iconografia razzista e i codici linguistici dei benpensanti sono rimasti intatti Uno studio recente mostra come i bambini neri siano sanzionati il doppio degli alunni bianchi
Si sono accavallati, in questa fine estate americana, gli anniversari che riportano il paese ad alcuni degli eventi più drammatici della storia recente e si sovrappongono, nel finale della prima presidenza afro-americana, le ricorrenze che scandiscono la dolorosa storia razziale del paese. La coincidenza della presidenza Obama con il cinquantenario del movimento dei diritti civili ha fatto sì che sotto il mandato del primoblack president si celebrassero gli anniversari della marcia su Washington e della legge sul diritto al voto, cioè delle cruciali conquiste del movimento di Martin Luther King. Ma la coincidenza che era sembrata marcare in maniera così significativa il progresso compiuto da allora, ha finito per sottolineare l’ostinata persistenza di fisiologiche ingiustizie. E le celebrazioni degli eventi salienti della marcia per la giustizia sociale si sono mescolati con la litania dei necrologi di uomini neri.
Cronaca e storia intrecciate
Così i nuovi disordini registrati nell’anniversario di Ferguson sono coincisi con le commemorazioni delle storiche Watts riots del 1965 . Paralleli che hanno impedito di relegare le celebrazioni nella sicurezza della prospettiva storica riportandole di prepotenza alla drammaticità della cronaca, a questo presente di omicidi di polizia e richiami razziste agitati nei comizi “viscerali” di Donald Trump. Nell’anno di Ferguson e di Baltimora, discorsi e corsivi hanno riesumato insieme con la rivolta di Watts l’atto fondativo della stagione delle ribellioni razziali che, città dopo città, (Cleveland 1966, Detroit 1966 e 67, Newark 1967) scandirono l’esasperazione afroamericana dopo che la protesta civile era stata soffocata nel sangue di King e di Malcolm X. Se la rabbia di Watts era, col distacco della storia, una giustificata reazione ad una ingiustizia secolare, giustificarla oggi significa capire ciò che sta avvenendo con identiche dinamiche nei quartieri neri di St. Louis o di North Charleston. Ed è emblematico che le indignate condanne e l’ipocrita scalpore espresso da chi oggi deplora la «violenza senza senso», ricalchino così letteralmente le frasi dei benpensanti di allora. Come in un paese in preda ad una colossale dissonanza cognitiva, i convenevoli celebratori convivono con la persistenza delle ingiustizie.
Diaspora e gentrificazione
L’ultima commemorazione in ordine di tempo è stata quella dell’uragano Katrina, un disastro che, come ha detto Obama, fu una catastrofe naturale resa peggiore dall’opera dell’uomo. Le terrificanti immagini che arrivarono allora dalla crescent city fanno dunque parte a pieno titolo dell’iconografia del razzismo nordamericano.
Perchè Katrina è stata la morte – l’omicidio se si tengono in conto le responsabilità – di una grande città afro-americana, culla del jazz e della cultura creola. L’inondazione provocata dal fallimento degli argini sul lago Ponchartrain affogò quel 27 agosto, 2005 i quartieri più poveri di una città povera e quasi interamente afro-americana, appunto. L’esodo della popolazione – particolarmente quella di colore – ha svuotato la città che 10 anni dopo ha ancora poco più della metà degli abitanti originali. Non soprende che la diaspora di New Orleans sia vissuta dai neri americani come l’ennesimo attentato – politico, culturale, razziale – alla propria comunità, uno dei tanti tasselli di una storia dolorosa, un calvario nel nuovo mondo, che dura da 400 anni.
Come ogni altra crisi razziale, Katrina o Watts o Ferguson evidenziano una questione che si ripropone in tutta la sua intrattabilità sin dai tempi della reconstruction con cui il vittorioso governo nordista tenta dopo la guerra civile di integrare la popolazione di schiavi liberati nella società. Un monumentale progetto di ingegneria sociale e riconciliazione nazionale per rimediare al peccato originale schiavista che fu destinato al completo fallimento.
La rimozione del Negro Problem
La storia è successivamente segnata da cicli di rimozione e occasionale progresso con tentativi di riforma e recrudescenze razziste. Al progetto fallito della “ricostruzione” fece seguito l’ascesa del KKK e la segregazione istituzionale delle leggi Jim Crow. Un secolo dopo l’abolizione della schiavitù fu necessario mobilitare la guardia nazionale e i fantasmi della guerra civile, per integrare le scuole del Sud. A proposito di fantasmi, fino al mese scorso la bandiera confederata sventolava ancora davanti al parlamento del South Carolina.
Alla fine degli anni Trenta una commissione per la riforme sociali (la Carnegie Corporation) commissionò all’economista premio Nobel svedese Gunnar Myrdal uno studio che avrebbe dovuto gettare luce sulla problematica razziale americana da osservatore “neutrale”. Lo studio di 1.500 pagine individuò le dinamiche alla base del negro problem americano: il circolo vizioso di oppressione e emarginazione che si perpetuava da secoli.
Qualche anno dopo la stagione della mobilitazione di massa per i diritti civili, culminata nella legge sul diritto al voto firmata da Johnson, sembrava aver infine impresso un maggiore impulso alle riforme. La affirmative action, altro prodotto cruciale della Great Society, si proponeva di correggere alcune delle cause fondamentali della disuguaglianza fra le razze e quindi di «spianare il terreno» e compensare il “deficit” di opportunità con agevolazioni per istruzione ed impieghi pubblici.
Ma recenti sentenze della corte suprema hanno chiamato in causa la costituzionalità della affirmative action e hanno rimosso intere clausole nelle garanzie di accesso al voto. La permanenza del razzismo, in concomitanza con le celebrazioni di quelle conquiste sociali date per acquisite e che invece rischiano di essere smantellate, è per questo tanto più sconfortante. Lo stillicidio di morti per mano della polizia racconta ogni settimana la svalutazione delle black lives – le vite dei neri, valutate con altri pesi e diverse misure. Una nuova consapevolezza da cui nasce il movimento Black Lives Matter, la più recente espressione politica della protesta nera.
Disciminazione e fallimento
Il razzismo che considera “congenito” il fallimento dei neri, è una profezia auto-avverante che si perpetua oggi con gli arresti e la carcerazione endemica di afro-americani, (uno studio recente ha mostrato come già alle elementari i bambini neri vengano sanzionati con una disciplina sommaria, come l’espulsione dalla classe o dalla scuola, a un tasso doppio di quello dei bambini bianchi). L’embrione pregiudiziale di un complesso penale-industriale che è un congegno di controllo sociale dagli effetti devastanti su famiglie e tessuto sociale.
Un ciclo che perpetua l’ingiustizia anche nel momento di massima influenza della cultura afro-americana (basta vedere la saturazione globale di un fenomeno come l’hip hop). Ascoltare la parlata di un liceale medio – non solo a Brooklyn o Compton ma a Milwaukee come a Phoenix – di ogni razza significa constatare la compenetrazione definitiva dello slang dei neri urbani nella middle America.
Linguaggi meticci e black
Paradossalmente l’egemonia della black culture è fonte di altre polemiche sulla “appropriazione culturale”, che come la gentrification (la rivalutazione dei centri urbani da parte di giovani dei ceti professionali) hanno aperto nuovi fronti di scontro fra le razze.
Il negro problem perdura, non sono bastati 200 anni a rimarginare le ferite della schiavitù, i danni di quelle terribili ingiustizie originarie. Sarebbe utile riflettervi oggi, senza sciocchi sensi di superiorità, nell’Europa che si affaccia con tutte le mosse sbagliate ad un proprio futuro multirazziale. Se l’America insegna qualcosa è che le ingiustizie, i pregiudizi e le violenze perpetrate oggi si potrebbero pagare per secoli a venire.
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