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Cosa manca al movimento della scuola

«Quando per noi la misura sarà veramente colma?» si domanda giustamente Laura Marchetti commentando sul manifesto dell’8 agosto la sperimentazione del diploma in quattro anni decisa dalla ministra dell’istruzione Fedeli. […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 13 agosto 2017

«Quando per noi la misura sarà veramente colma?» si domanda giustamente Laura Marchetti commentando sul manifesto dell’8 agosto la sperimentazione del diploma in quattro anni decisa dalla ministra dell’istruzione Fedeli. Quando nascerà un vasto movimento – innanzitutto di chi nella scuola lavora e studia, ma non solo – per riconnettere l’istruzione alla promessa di uguaglianza della nostra Costituzione? L’elaborazione critica a cui attingere non manca. Contro la scuola-azienda neo-gerarchica, contro l’ideologia che combina valutazione, meritocrazia e carriera, contro l’alternanza scuola/lavoro, esiste una riflessione che trova interesse e ascolto anche in alcune organizzazioni sindacali e professionali. Ma non sa farsi azione collettiva visibile.

Una ragione può essere la composizione della forza lavoro scolastica. Da una parte, la maggioranza di insegnanti e operatori, con un’età media molto elevata e con una storia recente di battaglie perdute, è più orientata a sopravvivere come può fino alla pensione piuttosto che a ingaggiare nuove lotte. Dall’altra, la minoranza di «giovani» trenta-quarantenni è divisa fra una «sotto-classe» di precari, spesso ex aspiranti accademici, i quali hanno difficoltà innanzitutto a percepirsi come lavoratori della scuola, e una élite di neo-immessi in ruolo in cui prevale un (comprensibile) entusiasmo per l’obiettivo raggiunto che spesso si traduce in una sorta di auto-disciplinamento e di inconsapevole adesione al nuovo corso neoliberale. Un punto su cui provare a fare leva sarà quello dei carichi di lavoro sempre maggiori, sia per i docenti che per il personale amministrativo e ausiliario, a fronte di stipendi – come ha riconosciuto la stessa Fedeli – ridicolmente bassi. Per chi non conosce le scuole dall’interno è forse difficile da credere, ma l’antica vulgata dell’insegnante «con il pomeriggio libero e tre mesi di vacanza» ora è quanto di più lontano dalla realtà esista. Per tacere degli operatori di segreteria, oberati di incombenze da parte di un ministero tanto esigente quanto inefficiente: proprio questi giorni agostani ne sono testimonianza. La tornata di rinnovo contrattuale che sta entrando nel vivo potrebbe essere l’occasione per smuovere un po’ le acque. Una piattaforma per «un’altra scuola possibile», tuttavia, non dovrebbe incorrere in un errore: decantare le virtù del buon tempo andato. Non credo fosse l’intenzione di Marchetti farlo, ma un paio di passaggi del suo articolo meritano un chiarimento. In primo luogo, la questione delle «competenze» contrapposte al «sapere», all’autentica cultura. Rifiutare la didattica per competenze in nome di una didattica della «vera» conoscenza è fuorviante, e non coglie le potenzialità di un modo di insegnare che vuole dotare gli allievi di strumenti per orientarsi criticamente nel mondo piuttosto che riempire le teste di nozioni da ripetere all’interrogazione, come tradizionalmente la scuola gentiliana ha fatto e troppo spesso continua a fare. «Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena» per dirla con Edgar Morin. Le competenze non sono al posto del sapere, ma sono quello stesso sapere utilizzato per decodificare contesti reali. Intendiamoci: competenze tout court, non «competenze spendibili sul mercato», che di quel tipo di didattica è il pervertimento neoliberale. Traducendo per i non addetti ai lavori, e consapevolmente estremizzando, si potrebbe dire: studiare Manzoni deve «servire» (anche) a capire un articolo di un quotidiano o un contratto di lavoro, a riconoscere le fake news razziste diffuse in rete o quando un post su facebook trascende in cyber-bullismo, altrimenti è mera trasmissione di cultura borghese.

L’altro tema è quello del «comico anglo-pedagoghese». Marchetti ha ragione nell’ironizzare amaramente sull’anglofilia di certa pedagogia accademica, ma se traduciamo molte di quelle espressioni troviamo in realtà modelli per «fare lezione» in modo alternativo a quello tradizionale ex cathedra. Troviamo, cioè, un rapporto docenti-allievi anti-autoritario (la «classe capovolta» con gli studenti in cattedra), che fomenta la cooperazione e non la competizione fra gli alunni, che prova a rendere i ragazzi protagonisti del loro percorso di apprendimento. Smettiamola giustamente con l’anglofilia «renziana», ma teniamoci strette esperienze didattiche sanamente innovative, culturalmente e politicamente emancipatrici.

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