È difficile leggere i resoconti dalla London Book Fair, che si è chiusa mercoledì scorso sbandierando numeri quasi prepandemici (30mila partecipanti, un migliaio fra case editrici e agenzie letterarie, e naturalmente scambi di diritti a volontà), senza che il pensiero vada al film American Fiction di Cord Jefferson, Oscar 2024 per la migliore sceneggiatura non originale, e al libro da cui è tratto, Erasure, di Percival Everett.

Uscito negli Stati Uniti all’inizio del millennio, ben prima della cancel culture cui il film sembrerebbe fare riferimento, il romanzo è stato pubblicato una prima volta in Italia da Instar Libri nel 2007 ed è stato appena riportato nelle nostre librerie dalla Nave di Teseo (Cancellazione, traduzione di Marco Bosonetto, pp. 416, euro 22). Senza entrare nei dettagli della trama, e soprattutto evitando di chiederci se Everett sia stato consultato nella scelta della copertina di questa nuova edizione italiana, qui ci limiteremo a dire che il romanzo, come pure American Fiction, è (anche, non solo) una satira del conformismo imperante ormai da decenni nell’editoria statunitense o forse mondiale – un conformismo che, per motivi nobili e meno nobili, insegue le «tematiche» di moda e inchioda personaggi e categorie agli stereotipi più consunti, non sia mai che un libro diventi l’ascia per rompere il mare di ghiaccio dentro di noi, come famosamente ha scritto Kafka.

Ma per tornare alla Book Fair londinese, nei locali di Olympia a Hammersmith, di asce taglienti se ne sono viste poche, se non altro negli stand delle case editrici di maggiori dimensioni. Certo non è una novità, eppure il fenomeno deve avere raggiunto dimensioni preoccupanti, se – come riferisce Johanna Thomas Corr, chief literary critic del britannico Times nella sua newsletter settimanale – il Pen Club ha deciso di organizzare, proprio all’interno della fiera, un dibattito intitolato Has the publishing industry become more risk averse?, che in italiano potrebbe suonare: «Forse l’editoria ha perso la sua propensione al rischio?».

La domanda è chiaramente retorica, ma vale la pena citare quanto scrive la critica del Times: «Sono infiniti gli esempi di grandi editori che non hanno pubblicato opere importanti per mancanza di coraggio o di immaginazione, e non solo a causa di preoccupazioni politiche, ma anche perché evidentemente non hanno idea di come commercializzare libri che non corrispondano a modelli consolidati. Gli agenti letterari mi dicono che la situazione è peggiore che mai, dato che gli editori cercano ‘esperienze di lettura’ che competano con Netflix e i social media per la nostra attenzione, il tipo di libri che si possono mangiare senza masticare».

E ancora: «Parte del problema è che gli editor dei grandi marchi, che non godono più di uno status elevato nella gerarchia professionale, non possono fidarsi del proprio istinto. Le decisioni sulle acquisizioni spesso si basano sul grande seguito di un autore, più che sull’originalità del suo testo… In questo clima, le case editrici si affidano troppo ai sondaggi e ai dati di vendita, che vengono utilizzati per decidere quali titoli acquisire. Ma questi dati riflettono le tendenze del presente che immediatamente si trasformano in passato, e dunque non dicono quali libri potranno avere successo in futuro».

C’è bisogno di una conferma? Basta leggere l’attacco dell’articolo di Ella Creamer sul Guardian dedicato ai titoli più caldi della fiera londinese: «La Palestina, l’intelligenza artificiale e il romantasy (incrocio fra romance e fantasy, ndr) sono stati al centro dell’attenzione alla Book Fair».

Se sarà ancora così al momento della pubblicazione, è da vedere.