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Corti in circuito al 41° Clermont-Ferrand

Corti in circuito al 41° Clermont-Ferrand"Bacon et la colère de Dieu" di Sol Friedman (Canada 2015)

Festival Focus sul Canada, concorso internazionale all'insegna delle diversità culturali e nazionali

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 26 gennaio 2019

Variegato per colore, pelle e genere è il pubblico del più importante festival dei cortometraggi del mondo che prende il via a Clermont-Ferrand il 1 febbraio. Variopinto e diversificato, come lo è il nutrito programma di questa 41° edizione che per 9 giorni occuperà a pieno ritmo 14 schermi con corti di ogni tipo, fra opere in concorso, retrospettive e omaggi.

Occhi incollati sui grandi schermi come atto d’amore di un pubblico appassionato e numeroso, popolare e colto che affolla con migliaia di presenze la centrale e capiente Maison de la Culture, gli auditori universitari, i cinematografi cittadini. A questi spettatori le ombre proiettate restituiscono il più classico dei primi piani di coppia, preludio al bacio di passione, in cui chi guarda può rispecchiarsi. Così sintetizza il poster ufficiale creato da Rémi Chayé, animatore e regista del lungometraggio del 2016 Tout en haut du monde (Long Way North).

Paese ospite d’onore è il Canada che ha appena celebrato il suo 150° anniversario. Agli ultimi vent’anni di corti prodotti dal secondo paese più esteso del globo Clermont-Ferrand dedica un focus con 38 opere suddivise in 6 programmi. Si tratta comunque di una selezione di degustazioni, considerando l’ampia realtà produttiva dinamica e anche sperimentale da Montreal a Vancouver, con una importante e prestigiosa officina pubblica quale il National Film Board. Questo ente rappresenta da anni porto e cantiere per i migliori talenti del mondo per l’animazione, accogliendo e promuovendo avanguardie e sperimentazioni dei linguaggi audiovisivi artefatti, unanimamente riconosciuto. In scaletta troviamo quindi il documentario animato Three thousand di Asinnajaq alias Isabella Weetaluktuk, di origine inuit, che trova ispirazione nella nozione del rispetto dei diritti della persona nella ricerca delle sue radici strettamente legate alla “ esuberante bellezza del mondo”. Pluripremiato trofeo del NFB è di certo I diari di Lipsett, breve capolavoro animato di Theodore Ushev, affermato artista nato bulgaro e ormai canadese d’adozione. In forma di diario intimo, il film ci conduce per i meandri della malattia mentale del regista d’avanguardia canadese di corti di collage Arthur Lipsett, seguendone le evocazioni immaginarie e le immagini della sua infanzia solitaria, la frenesia creativa e il vertiginoso sprofondamento nella depressione e nella follia. Sulle orme di Lipsett (apprezzato fra gli altri da Kubrick che gli fece la proposta, declinata, di realizzare il trailer per Il dottor Stranamore) , anche Ushev dà grande importanza al suono in chiave sensazionale intelligente. Il connubio che collega il cortometraggio canadese con il grande cinema anche autoriale vanta del resto nomi quali David Cronenberg e Denis Villeneuve.

Rew Ffwd (1994) è il documentario di mezzora con cui Villeneuve racconta di un fotoreporter in Giamaica che, con l’auto in panne in un ghetto considerato violento, si trova a confronto con i propri pregiudizi e la realtà. Scritto e diretto da Cronenberg nel 2000, il piccolo film di 6’ Camera ha per protagonista un attore mentre discute del film rivolgendosi direttamente alla videocamera che lo sta riprendendo. Entrano in scena di nascosto dei bambini che cominciano a giocare con attrezzi e cinepresa fino a spodestare di fatto il protagonista dal suo ruolo. Come sinossi troviamo le parole del regista: “Molto tempo fa feci un sogno: ero al cinema, in mezzo al pubblico, e guardavo un film. E bruscamente mi resi conto che ero invecchiato, che mi stavo facendo paurosamente vecchio”.

Dal manifesto del festival al suo pubblico fino alla realtà cinematografica canadese in vetrina, c’è una cifra unitaria all’insegna dell’incrocio delle diversità culturali e nazionali. E se non bastasse il concorso internazionale consistente in 78 film provenienti da 61 paesi (selezionati fra 7197 ricevuti) a ribadire il carattere multiculturale della manifestazione, rafforza il concetto il focus specifico di quest’anno. Ogni anno infatti il festival dedica una retrospettiva insolita, scantonando da strade battute per avventurarsi su ambiti particolari quali già lo spazio, la bicicletta, la piscina. Curiosa quindi è anche la retrospettiva tematica di quest’anno: Short in Translation riunisce corti diversi attorno alla nozione di babele linguistica. Il programma di 16 cortometraggi è incentrato sul collegamento apparentemente impossibile fra i diversi idiomi, salvo poi concentrarsi sulla vera essenza comunicativa umana che oltrepassa talvolta la dialettica e lo scambio di parole condivise. In Ancora tre anni di Pedro Collantes la vedova Marisa parla solo spagnolo e Hiroshi, che cerca di dirle di essere amico del figlio, solo giapponese.

Nonostante tutto cercano di intendersi con l’aiuto di un dizionario tascabile, il vecchio cane Tico e la paella. Un giovane cinese ce la mette tutta per farsi capire in Irlanda senza però riuscirci, nonostante abbia studiato precedentemente il gaelico in vista del viaggio in Il mio nome è Yu Ming di Daniel O’Hara. Le sorprese in agguato causate da accoppiamenti tramite agenzia sono lo spunto di Hello, my name is Olga di Tatjana Korol dove un playboy austriaco di mezza età va in Ucraina per incontrare la sua nuova conquista combinata, salvo scoprire che le agenzie non dicono proprio tutto quando si rende conto che lei non incontra le sue aspettative. Fra i codici comunicativi c’è poi quello muto dei segni, al centro del premio Oscar 2018 per il miglior cortometraggio dal vero The silent child di Chris Overton. Protagonista è una bambina sorda di quattro anni nata in una famiglia della classe media, costretta al silenzio fino a quando un’assistente sociale le insegna la capacità di comunicare.

Non c’è da stupirsi più di tanto allora se l’unico film a rappresentare l’Italia nella competizione internazionale è Yousef di Mohamed Hossameldin (riprese di Daniele Ciprì), mentre Egg di Martina Scarpelli è inserito nella competizione nazionale francese (data la coproduzione franco-danese). Il primo è la storia di un cuoco apprezzato, figlio di immigranti cresciuto in Italia e che, dopo lunga attesa, ottiene finalmente la cittadinanza italiana, pochi giorni dopo l’attentato di Macerata dell’anno scorso di stampo razzista e neofascista. Nella sparatoria rimasero ferite sei persone di origine africana. Le sicurezze di Yousef perciò vacillano fino a portarlo a una vera crisi d’identità.

L’opera di Scarpelli (già vincitrice sia a Dok Leipzig quale miglior corto animato, sia al London international animation festival come miglior corto in assoluto e come miglior corto documentario d’animazione) è una cruda e ossessiva rappresentazione dell’anoressia. Disegnato in bianco e nero lineare con qualche accento grottesco, il film presenta una donna rinchiusa in casa che si rapporta con un uovo, ora attratta ora impaurita, che infine mangia fra pentimento e paradossale violenza.

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