Cortázar, una teoria di trame come distrazione
Tradotto da Sur «Componibile 62» (1968) Una «sperimentazione delle sperimentazioni» che non ha avuto fortuna e che apre sull’ultima stagione, inclassificabile, dello scrittore argentino
Tradotto da Sur «Componibile 62» (1968) Una «sperimentazione delle sperimentazioni» che non ha avuto fortuna e che apre sull’ultima stagione, inclassificabile, dello scrittore argentino
Normalmente la recensione di un libro dovrebbe fornire al lettore qualcosa di simile a un manuale di istruzioni, per accompagnarlo in una lettura più lucida e consapevole. Mi chiedo se sia possibile farlo per un romanzo dove l’autore stabilisce fin dall’inizio la regola per cui ogni lettore può costruirsi un personale manuale di istruzioni. Non sarà allora questa recensione un’impresa da classificare tra quelle del tutto inutili?
Eppure si dovrà tentarla, e dato che da qualche parte si dovrà pur cominciare, tanto vale farlo dal principio, che di solito è il titolo. Componibile 62 (traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, Sur, pp. 316, euro 16,00) è il libro che Julio Cortázar pubblica nel 1968, dopo averci lavorato per più di tre anni. Tutto nasce dal capitolo 62 di Rayuela, uno dei «capitoli prescindibili», quando Morelli, alter ego dello scrittore argentino, immagina un romanzo in cui tutto «sia come un’inquietudine, un’agitazione, uno sradicamento continuo, un territorio dove la causalità psicologica arretrerebbe sconcertata».
Quel libro rimane allo stato di progetto e quando Cortázar lo riprende, propone ai suoi lettori un «modello da costruire» (così recita il titolo originale, 62.Modelo para armar), senza inserire però alcun «manuale di istruzioni», come invece aveva fatto nel romanzo maggiore.
Componibile 62 non fu ben accolto: quel tentativo sembrò troppo radicale, non del tutto riuscito, e quello sperimentalismo tutto letterario stonava davvero in quell’anno che sembrava richiedere tutt’altro. Eppure è proprio Componibile 62 che inaugura l’ultimo periodo della sua produzione, quello dei testi inclassificabili, dei giochi, dell’umorismo, ma anche dell’impegno politico, della militanza dichiarata, di quella che potremmo definire una «sperimentazione etica».
A dire il vero oggi di quel «manuale» forse non sentiamo tanto la mancanza. Per il nostro sguardo postmoderno il romanzo ha un andamento fin troppo lineare: i cambiamenti repentini di scenario o di voce narrante, che alla fine degli anni sessanta potevano ancora sorprendere, oggi non ci stupiscono più: lettori e spettatori di film (basterà ricordare González Iñarritu e i suoi 21 gramos o Babel) si sono ormai abituati a ogni sorta di costruzioni a incastro, in cui storie e personaggi si intrecciano grazie a piccoli e apparentemente insignificanti dettagli.
Qui l’esperimento in effetti non riguarda tanto la struttura della narrazione, ma qualcosa di più radicale. Lo stesso Cortázar lo spiega nel prologo, e in due brevi saggi che pubblicherà in Ultimo round, quando definirà 62 come «esperimento degli esperimenti», dove si tratta di affrontare il «piano del significato», vale a dire cercare di dare un senso alle storie che si susseguono nelle pagine del modelo para armar.
Pagine in cui si muove un bel gruppo di cronopios assortiti (oltre a qualche speranza e di certo una fama), che hanno una vita quotidiana, con lavori da svolgere e impegni da rispettare, ma che allo stesso tempo ne hanno anche un’altra, una «vita tacita che ha poca attinenza con il quotidiano o l’astronomico, un influsso che lotta contro la facile dispersione in qualsivoglia conformismo o qualsivoglia ribellione più o meno privi d’iniziativa propria». I personaggi di 62 si incontrano allora al Cluny, nel Quartiere Latino, condividono amori non corrisposti, si lanciano in avventure esilaranti e improbabili, si assegnano l’uno l’altro il ruolo di «paredro» (divinità ausiliare e complice) e decidono alla fine di «non essere mai veramente seri», radunati solo da «un allegro e ostinato calpestare di decaloghi». Si muovono in città che si chiamano Parigi, Londra o Vienna, nomi che costituiscono però un solo spazio, una specie di continuum urbano, vagamente inquietante, da loro chiamato «la città».
Il libro presenta allora più trame che sarebbe possibile seguire: disamori e incontri falliti, una storia di vampiri, un naufragio in uno stagno, una cospirazione dei nevrotici anonimi, l’inaugurazione di una statua di Vercingetorige a testa in giù, e ogni lettore ne potrebbe scegliere una, o più d’una. Nessuna però potrebbe assumere un ruolo centrale. Il succedersi degli eventi si presenta infatti come un insieme compatto, un blocco basato su quella che Cortázar chiamerà la «distrazione come una differente forma dell’attenzione, la sua manifestazione simmetrica più profonda», che provoca un fenomeno per cui «nel soggetto che vive questo tipo di distrazioni la presentazione successiva di vari fenomeni eterogenei crea all’improvviso la comprensione di una omogeneità illuminante» in grado di proiettarlo «verso una prospettiva della realtà in cui sfortunamente non riesce a mantenersi». Il romanzo inizia allora fatalmente da un errore di interpretazione, da una traduzione sbagliata, che scatena un diluvio di conseguenze inattese, come «un capriccio capace di alterare un ordine, di agire sulle catene causali e provocare una brusca svolta, due righe spedite per posta che potevano allora perturbare il mondo».
In questo inseguirsi, perdersi e ritrovarsi tutti sembrano a loro modo ossessionati dall’«inutile desiderio di capire», dall’ «antico topico umano: decifrare»: è questo il terreno sul quale i personaggi potrebbero incontrare i lettori, ma senza la sicurezza che alla fine le interpretazioni coincidano. La sfida dell’esperimento, quella «scelta del lettore, il suo personale montaggio degli elementi del racconto» permette infatti a ciascuno di leggere un suo personalisssimo libro, e di dargli un senso differente. Cortázar sa bene, e fin dall’inizio, che questo è il rischio dell’esperimento (e che per questo esso non si potrà mai compiutamente realizzare), ma che bisognerà comunque avere il coraggio di provarci ogni volta, di dare un senso non ai frammenti di quella che chiamiamo «realtà», ma alla complessità organica che chiamiano «vita», per provare ad alzare «al cielo la parte più pesante e noiosa di sé stessa, la materia quotidiana dell’esistenza, proiettando il basamento fecale e lacrimoso verso l’azzurro di una trasmutazione genuinamente eroica».
Il libro propone allora questa ricerca di significato, sempre inconclusa, come il cammino da intraprendere, e se alla fine di ciò non rimarrà altro che «un’ansietà, un tremore, una vaga nostalgia», il gioco della lettura di Componibile 62, la sua sfida lanciata ai lettori, potrà, come ci ricorda Rosalba Campra nelle sue cortazariane Letture Complici, lasciare infine spazio al nostro personale gioco, alla nostra personale avventura, alla nostra personale ricerca di significato.
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