Mostrando e interpretando con mirabile misura e chiarezza il diorama meraviglioso di saperi e di discipline che ci dicono della voce – dalla fonetica all’antropologia, dalla mantica antica alle religioni, dalla poesia al teatro, dall’esegesi dei testi evangelici e liturgici alla psicoanalisi, dalla storia delle passioni alla storia dell’ascolto – Flatus vocis Metafisica e antropologia della voce di Corrado Bologna (prefazione di Paul Zumthor, Luca Sossella editore, pp. 207 € 15,00) si rivela un libro preziosissimo.

Anche perché ha, appunto, una sua propria, indimenticabile voce d’autore. Una voce che di volta in volta si intona con nitore e insieme con calore al tema della trattazione, sia questo la voce del silenzio o la voce del corpo, la voce d’amore o la voce che viene dal pulpito, la voce della possessione o la voce che muove verso le vocali e verso il canto.

Il saggio si fa racconto, l’erudizione diventa escursione che sa intrattenere il lettore conducendolo in terre inesplorate e convocando pensieri, pratiche rituali, orizzonti di senso, variazioni ermeneutiche intorno a una tradizione o a un concetto che ha per oggetto la voce. La voce che è ruah, cioè soffio che dà vita e presenza, ánemos, ovvero anima e vento, respiro, pneuma, pulsione profonda che si fa suono, movimento sonoro che annuncia e sostiene il verso. La voce che resiste come grana essenziale del poetico, nella musica delle vocali, nel suono delle sillabe, nel bianco della sospensione e dell’attesa, nel pianto e nel grido. La voce che è connubio con la fisicità corporea e organica, con le rappresentazioni fantasmatiche dell’oltre, dell’estraneo, del demonico, ma anche del divino, dell’invisibile, dell’inudibile.

La voce che è fiato delle passioni, modulazione del silenzio, figurabilità dell’assenza – l’amor de lonh della poesia d’amore medievale –, del desiderio e dell’indicibile. Non è un saggio, questo, sull’oralità, che è forma sonora della parola – l’autore sin dalla soglia ne mostra la differenza – ma su quell’immensa regione, in parte visibile in gran parte nascosta, che è l’al di qua della parola, il suo prima che è insieme il suo oltre, il suo fondo oscuro o originario che è anche la sua negazione.

Terra dell’in-fanzia e del non sapere, dell’ebbrezza e del numinoso. Immensa regione del puro significante non incatenato nella rete della significazione. Il saggio di Corrado Bologna, via via che il lettore indugia e progredisce nelle sue pagine, appare come uno studio accuratissimo sui confini della parola, su quei confini la cui frequentazione e conoscenza ci permettono di sentire la vita che trascorre nella parola. E poiché tutte le arti hanno a che fare con questa vita – in particolare la poesia, il teatro, la musica – questo libro è una sorta di necessaria introduzione al loro esercizio.

Il saggio, con una nuova introduzione e con riscrittura e ampliamento di alcune parti, riprende la prima edizione, che è del 1992 (Il Mulino). In quel volume confluiva la «voce» sul lemma «voce» che era stata pubblicata nel 1981 nell’Enciclopedia Einaudi (Roland Barthes, che in un primo tempo era stato chiamato a scrivere quella voce, era purtroppo scomparso l’anno precedente).

Variegata e policroma la tela delle riflessioni, molti gli scorci che suggeriscono cammini. Voglio, tra questi, ricordare la forte attenzione alla poesia, in particolare a Dante, alla sua vocalità, a quell’intreccio tra il prima della parola, l’elemento materno e la parola poetica che un poeta come Mandel’štam colse con luminose considerazioni.

E ancora, le escursioni sul nesso tra rito e vocalità come prende forma in alcune culture, le osservazioni sulle implicazioni foniche dei costumi e del vivere sociale come si definiscono nelle corti rinascimentali.
Rilievi e indagini che mentre danno al saggio una tessitura coltissima e tesa, non nascondono lo «spirito», il soffio, che trascorre nella scrittura e la vivifica: una grande passione per la lingua e per il sapere, per la musica della lingua, per la musica del sapere.