«Sono pronto per iniziare. E anche per finire. Ecco cosa provo. Spero di non dover usare i fazzoletti. Ma sono emotivo, quindi chissà». È il 14 settembre 2022. A parlare con una voce pronta a cedere alle lacrime, molto prima che tutto accada, è Roger Federer, la leggenda del tennis, professionista per ventiquattro anni, costretto a interpretare l’epilogo di una ineguagliabile storia sportiva. Un capitolo finale completamente diverso da quelli disputati nei tanti tornei vinti o persi. Persino dopo le sconfitte più dolorose, l’orizzonte prevedeva comunque altri obiettivi e nuove imprese da realizzare. Giochi e set sono terminati, niente servizi, risposte, attacchi in controtempo, volée.

ALLE SPALLE del fuoriclasse, che sta per riporre definitivamente la racchetta, una vetrina colma di coppe testimonia le innumerevoli tappe di un percorso che solo superficialmente e a posteriori si può definire da predestinato. Stare tutto quel tempo sui campi, aver attraversato numerose generazioni di tennisti, essersi imbattuto in due nemesi come Rafael Nadal e Novak Djokovic, senza peraltro abbandonare la contesa, cercando invece una via ulteriore per competere, non è compito per un eletto o per il figlio di un re. Il campione svizzero ha messo insieme talento e allenamenti, brillantezza e applicazione, è riuscito a ottenere dal proprio fisico la capacità di corrispondere alle richieste eccentriche della mente. Altrimenti Federer non sarebbe mai stato Federer e altri, a loro volta, avrebbero potuto diventarlo. Infatti, a convincerlo che fosse finita un’epoca, è stato un corpo che non ne voleva più sapere di anticipare le traiettorie di una pallina per produrne altre ancora più insidiose. Si tratta di scrivere una lettera al tennis e al mondo intero, come fece Kobe Bryant con il basket, e di celebrare il ritiro con un evento, la Laver Cup. Una competizione inventata qualche anno prima proprio da Federer, per omaggiare l’idolo australiano, con un simbolico confronto tra Europa e Resto del Mondo. Un prodotto dedicato ai nostalgici, più che del giocatore, del personaggio

«È BUFFO, ho la stessa sensazione prima di una partita importante. Quando sono nello spogliatoio ed è tutto pronto. E aspetto solo il momento di scendere in campo. Certe emozioni mi mancheranno, ma non mi dispiacerà troppo, dopo che mi sarò ufficialmente ritirato. Perché il nervosismo e il nodo allo stomaco dopo un po’ stressano», confessa Federer a quarantacinque minuti dall’ufficializzare il suo addio all’agonismo attraverso i propri canali social. E nel dire queste cose, in realtà, traspare già un senso di vuoto. Dove andrà a finire quel brivido che rivela, al tempo stesso, paura e ambizione?
Londra, 23 settembre 2022. Il giorno dell’ultimo match. Il celebre doppio giocato al fianco di Nadal. Un incontro noto, soprattutto, per le lacrime dei due amici rivali che mano nella mano si trovavano a condividere una sorta di lutto sportivo, elaborandolo insieme.
Quel breve periodo, dall’annuncio alla sfida, ha preso la forma di un documentario visibile su Prime Video: Federer: gli ultimi dodici giorni, diretto da Asif Kapadia e Joe Sabia. Un prodotto dedicato ai nostalgici, più che del giocatore, del personaggio che si lascia andare alle emozioni, che ama dialogare e parlare del suo mondo. Interviste a tutti i suoi più celebri contendenti e pochi materiali di repertorio montati in modo didascalico, il tutto accompagnato senza sosta da una musica che regola con zelo il traffico delle emozioni. Evidentemente, quello che la letteratura è in grado di fare con Open (l’autobiografia di Andre Agassi scritta con l’aiuto di J. R. Moehringer), al logaritmo di una piattaforma audiovisiva è decisamente proibito.