La vita è una cosa spaventosa. Mille e mille tentati possiamo intraprendere per cercare di renderla pacifica, prevedibile, meno temibile, più addomesticabile. Possiamo ingabbiarla in matrici matematiche, in forme geometriche, in formule fisiche, e la realtà continua a scivolarci di mano, sguscia da ogni parte, ci aggira: più vogliamo controllarla, più ci aggredisce.

LA VITA È SPAVENTOSA, specie quando le certezze che nutrivamo crollano, lasciandoci in balia dell’ignoto. Un amore finisce, una persona se ne va: gli occhi, che erano testimoni della nostra vita rendendola più reale, non ci guardano più, si girano lasciandoci in un cono d’ombra. Questa è l’esperienza che, con penetrante poesia, in molteplici declinazioni Agustín Fernández Mallo ci racconta nel suo straordinario libro, Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Internopoesia, pp. 220, euro 15). Le mille strade imboccate e abbandonate di cui si racconta sono i molti sforzi per rendere esatta e lineare una realtà difficile da accettare, per poi, alla fine, ritornare sempre all’ineffabile, alla consapevolezza che «di tutto ciò che non si può dire, si deve tacere».

C’è un’esperienza individuale, diretta, concreta, sensuale, che non può essere detta, ma solo vissuta; che non può essere filtrata attraverso le matrici logiche delle parole e dei numeri, ma può essere solo attraversata con il timoroso coraggio dell’esploratore. L’esperienza dolorosa, perfetto speculare dell’amore, è una di queste esperienze che sembrano impossibili da racchiudere in una forma riconoscibile, impossibili da tradurre per altri senza al contempo un po’ tradirle. Ciò che distingue l’amore dal dolore per un’assenza è che il primo ci offre un tempo infinito per consegnarci a una comunicazione infinita e multiforme, per scampare alla frustrazione dell’ineffabile della vita; la fine dell’amore, un amore non corrisposto, l’assenza, una morte, invece, non ci lasciano che parole e, al contempo, nessun orecchio a cui confidarle.

Il libro di Fernández Mallo esplora con grandissima poesia l’accettazione, o forse la rassegnazione, di fronte all’assenza. E se si conclude con un brano «per quando tornerai», non è per una velleitaria, illusoria speranza, bensì per assicurare che il ritorno non è più una possibilità, non essendo più una necessità: «accumulo oggetti così che al tuo ritorno troverai ad aspettarti il tuo doppio; così da non farti trovare posto, così da non farti tornare». Tutto lo spazio che quel ritorno avrebbe potuto richiedere, è ora occupato da simulacri dell’amore passato, strategicamente collocati a riempire ogni vuoto e a colmare ogni richiesta di ritorno. «Sii felice. Ovunque tu sia».