Coronavirus, sono più di tremila i casi in Italia
Il contagio Ricostruita l’evoluzione del focolaio europeo. A rischio la fornitura dei farmaci dall’India. In Italia i casi continuano a crescere allo stesso ritmo dei giorni precedenti. Solo la Val D’Aosta si salva
Il contagio Ricostruita l’evoluzione del focolaio europeo. A rischio la fornitura dei farmaci dall’India. In Italia i casi continuano a crescere allo stesso ritmo dei giorni precedenti. Solo la Val D’Aosta si salva
Il numero di casi in Italia ha superato le tremila unità e le vittime di Covid-19 sono salite a 107. Sono i dati aggiornati a ieri sera con i risultati di circa quattromila test effettuati in un solo giorno. La percentuale di morti sul totale dei casi è del 3,4%. È una percentuale simile a quella rilevata a Wuhan, nel cuore del focolaio cinese. Ma come è stato spesso ripetuto a proposito dei numeri cinesi il dato ha un significato relativo e non rappresenta una stima del rischio di morte dovuto alla malattia. Il numero di casi, infatti, dipende fortemente dal numero e dalle modalità dei test effettuati. Per esempio, in Corea del Sud, dove i casi totali sono quasi il doppio rispetto a quelli italiani, le vittime sono meno di un terzo (35). Preoccupa invece il numero in continua crescita di persone in terapia intensiva, che ha superato quota trecento, e che essendo certificato dal ricovero è meno sensibile alla strategia di sorveglianza adottata per i test.
In sostanza, i casi continuano a crescere allo stesso ritmo dei giorni precedenti. Solo la Val D’Aosta non ha ancora registrato casi positivi al coronavirus. Le misure di contenimento attuate nel nord Italia finora non mostrano effetti e bisogna sperare che quelle varate ieri non siano arrivate troppo tardi. Come si ripete da giorni, il pericolo deriva soprattutto dal rischio che troppi ricoveri in un breve periodo di tempo portino al collasso il sistema sanitario.
Non va meglio l’Iran, il cui focolaio ha dimensioni paragonabili al nostro per entità ed evoluzione nel tempo. Anche gli altri grandi paesi d’Europa (Germania, Francia, Spagna e Regno Unito) contano nuovi casi a ritmi simili. Questi paesi contano tutti ancora meno di trecento casi ma anche lì il numero raddoppia ogni tre o quattro giorni.
Informazioni preziose sul focolaio europeo, anche se da confermare, provengono dagli studi genetici sui ceppi virali in circolazione. Gli epidemiologi guidati del Fred Hutchinson Institute di Seattle hanno studiato l’evoluzione del coronavirus a partire dalle sequenze genetiche dei vari ceppi virali isolati in diverse parti del mondo. Dalle minime mutazioni subite dal virus nel passare da un individuo all’altro, gli scienziati riescono a risalire all’“albero genealogico” dei virus: se due virus sono molto diversi l’uno dall’altro, evidentemente il loro progenitore comune è lontano perché la loro evoluzione deve aver avuto il tempo di accumulare numerose piccole differenze.
La genealogia del coronavirus mostra che i casi registrati in Europa (Italia compresa) discendono probabilmente dal ceppo isolato in Germania in gennaio, quando un piccolo focolaio si diffuse in un’azienda bavarese di componentistica.
Secondo Trevor Bedford, primo autore della ricerca di Seattle, «sembra che il focolaio contenente il virus bavarese sia un progenitore diretto dei successivi virus e che abbia causato direttamente una buona parte dell’epidemia in corso in Europa». Sul momento si era ritenuto che il focolaio tedesco fosse stato circoscritto e eliminato. Ma la parentela genetica dimostrerebbe che il contagio bavarese era più largo ed era sfuggito ai controlli.
La diffusione dell’epidemia sta portando diversi governi ad adottare misure di protezione anche dal punto di vista produttivo. Nell’economia globalizzata, però, queste decisioni rischiano di pesare su tutto il mondo. È il caso dell’India, che per prevenire la scarsità di medicinali ha deciso di limitare l’esportazione di 26 ingredienti-chiave nello sviluppo delle medicine. Si tratta di sostanze presenti in medicinali di largo uso, come il paracetamolo, l’eritromicina e il tinidazolo (antibiotici) o il progesterone. Rappresentano il 10% delle esportazioni farmaceutiche indiane e sia le aziende statunitensi che quelle europee si riforniscono abbondantemente dall’India per i principi attivi dei farmaci che producono. Lo stop indiano è a sua volta causato dal rallentamento cinese: secondo Sahil Munjat, vice presidente dell’ente di promozione delle esportazioni farmaceutiche indiano, «l’India dipende moltissimo dalla Cina. Quindi, se le fabbriche cinesi non riapriranno a marzo, la logistica e il mercato mondiale subiranno danni notevolissimi».
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