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Coronavirus e il castigo del PIL

Coronavirus e il castigo del PIL

Ultraoltre È la prima volta che nella storia ci troviamo in assenza di rimandi simbolici, di fronte alla scomparsa del divino

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 7 marzo 2020

Il processo di secolarizzazione del nostro modello di civilizzazione sembra, a prima vista, inarrestabile; questa progressiva, ed ingravescente, perdita degli aspetti trascendentali di ogni fenomeno della vita ha, per ultimo, colpito quelli un tempo percepiti come i più connessi alle inferenze del numinoso in tutte le sue molteplici forme: le pandemie. Quella da coronavirus, in specifico, è in assoluto la prima nata e gestita a nel segno della quantità, senza la benché minima presenza di rimandi simbolici. Anche il divino, almeno inteso in senso classico, qui è scomparso, a meno che non si prenda in considerazione come nuovo idolo il dio denaro.

Vedo satana cadere come la folgore

Risalendo il filo del tempo troviamo invece un nesso fortissimo tra epidemie e sacro, in particolare nel legame tra la morbosità che affligge una intera comunità e il gesto del sacrificio; in altre parole tra la violenza ed il sacro. Sin dai primordi, infatti, il gesto sacrificale veniva evocato per combattere o scongiurare un flagello epidemico e, quanto più questo era grave, tanto più il sacrificio non poteva che essere estremo, capitale. Di questa particolare tipologia di sacrificio si possono, molto schematicamente, tracciare gli elementi essenziali. Il primo è la dinamica della scelta vittimaria, del cosiddetto pharmakos: il soggetto che doveva essere sacrificato. Al di là delle modalità di esecuzione sacrificale, analoghe in molte culture tradizionali, il meccanismo deve essere operato su una forma di vita in grado, col suo sacrificio, di ottenere la riconciliazione con le Potenze divine che hanno scatenato il morbo, o lo possono debellare o, ancora, che hanno il potere di prevenirlo, poiché l’umanità, da sola, non riesce ad ottenere questi risultati. Paradigmatico è il caso di Eracle che presiede alla lapidazione del mendicante straniero ad Efeso per scacciare la peste.

Riportiamo allora la storia come viene narrata da Flavio Filostrato nel suo Vita di Apollonio di Tiana. La lapidazione di Efeso, abbiamo detto, è posta in essere nel momento in cui la città è vittima di una tremenda pestilenza; ecco il presupposto fondamentale: una grave crisi, irrisolvibile attraverso le forze umane e che mette in pericolo l’esistenza stessa della comunità. In secondo luogo un mendicante straniero viene identificato come vittima sacrificale perché “demonizzato” e dunque esponibile alla violenza riparatrice; terzo elemento: il culto di Ercole, che viene così onorato chiamando la forza del dio in soccorso della città appestata.

Dice dunque Filostrato riferendo le parole di Apollonio: «Fatevi coraggio, perché oggi stesso metterò fine a questo flagello (la pestilenza). E con tali parole condusse l’intera popolazione al teatro, dove si trovava la figura del dio protettore. Lì egli vide quello che sembrava un vecchio mendicante, il quale astutamente ammiccava gli occhi come se fosse cieco, e portava una borsa che conteneva una crosta di pane; era vestito di stracci e il suo viso era imbrattato di sudiciume. Apollonio dispose gli Efesi attorno a sé, e disse di raccogliere più pietre possibili e scagliarle contro quel nemico degli dei. Non appena alcuni di loro cominciarono a colpirlo con le pietre, il mendicante che prima sembrava cieco gettò loro uno sguardo improvviso, mostrando che i suoi occhi erano pieni di fuoco. Gli Efesi riconobbero allora che si trattava di un demone e lo lapidarono sino a formare sopra di lui un grande cumulo di pietre. Dopo qualche momento Apollonio ordinò loro di rimuovere le pietre e di rendersi conto di quale demone avevano ucciso. Quando dunque lo ebbero riportato alla luce, trovarono che era scomparso… A causa di questo la statua del dio protettore, Eracle, venne posta proprio nel punto dove il demone era stato ammazzato». Dopo che la vittima è stata uccisa, la crisi finisce e l’equilibrio viene ristabilito, ci ricorda René Girard nel suo Vedo satana cadere come la folgore.

Qui, come si vede, la relazione tra la pestilenza ed il divino è inscindibile, e non solo per questioni meramente legate all’arretratezza delle cognizioni scientifiche, ma come mentalità sacrificale, cioè come alleanza tra l’umano ed il numinoso: di ciò che comunque detiene le risposte ultime sulle grandi questioni della vita e delle morte. Il morbo che colpisce tutti spinge così la comunità ad interrogarsi sul senso stesso dell’esistenza. La scelta della vittima è dunque di volta in volta dettata dalla relazione mitica con la Potenza alla quale si offre il sacrificio; senza questo il gesto non ha senso alcuno e si riduce a pura violenza fine a se stessa. E così, cosmologicamente, il rito sacrificale riproduce il patto fondativo con la Potenza al quale è dedicato; senza questo rimando la ritualità non ha nessuna efficacia perché non rinnova l’alleanza, cioè la consapevolezza di un destino comune tra umano e divino.

In questa prospettiva pattizia la divinità non solo risana, ma previene: Ovidio, nei Fasti (V, v. 622 sgg.), dice che, nei tempi arcaici, Giove Fatidico prescrivesse ai nativi laziali di gettare nel Tevere, ogni anno, una vittima umana per ogni gens, in onore del «vecchio falcifero», cioè di Saturno. A questo «tuffo capitale» pose fine Ercole, che sostituì i corpi umani con dei fantocci. Il rituale proseguì poi nei secoli, durante le feste degli Argei il 15 maggio, con il lancio da parte delle Vestali, di fantocci in giunco (scirpea), rappresentanti gli stessi Argei, i cosiddetti «Quiriti di paglia», dal ponte Sublicio. Come abbiamo visto, qui viene sostituita la vittima umana con un suo idolo, esattamente come già nell’antica Grecia il pharmakos umano veniva rimpiazzato da un animale; nella Bibbia, e prima ancora, dal «capro espiatorio» o, come nel caso di Edipo e della peste ad Atene, dal suo esilio per avere infranto le leggi delle moralità ed aver così attirato il flagello sulla città. Anche in Edipo sussiste una forma di sacrificio cruento: egli si acceca.

Ora, dato che Ovidio non ci parla esplicitamente del mito fondativo, dobbiamo cercarlo in relazione all’elemento distintivo di questo rito sacrificale capitale, cioè nello specifico fatto che si tratta di un tuffo mortale nell’acqua. E giacché il rito arcaico viene prescritto in onore di Saturno, che evirò il padre Urano, possiamo pensare che esso riproduca, attraverso la morte rituale o simbolizzata, l’originale sacrificio divino che diede origine al Mondo. In particolare, sempre nel sottolineare il nesso tra prevenzione del morbo e divinità, ricordiamo come dai genitali di Urano nascesse Venere, Afrodite, dea della Bellezza e dell’Amore, le forze generatrici per eccellenza, e dunque contrarie a quelle distruttive del morbo. Ritroveremo queste ascendenze quando parleremo dell’epidemia di Spagnola sul finire del primo ventennio del ‘900. Più in generale il rito sacrificale officiato nell’acqua rimane una promessa di rinnovamento: anche nel battesimo l’acqua carica su di sé ogni impurità per dissolverla e permettere così il sorgere di un nuovo ciclo.

La peste medioevale

Ora, noi sappiamo che forme di sacrificio cruento sopravvivono fino al Medioevo, ed esattamente sino all’epoca dei grandi attacchi di panico scatenati da una calamità di proporzioni bibliche come fu la peste nera, i cui capri espiatori furono, di volta in volta, gli Ebrei o le streghe. La peste nera è stata la malattia, in verità ancora presente nel mondo moderno – solo negli USA ogni anno muoiono almeno una decina di persone di peste bubbonica – che forse più di altre ha catalizzato elementi irrazionali ed ascendenze religiose. Basti pensare alle caratteristiche delle due figure fondamentali cui venne attribuita la cause di tutto. Non parliamo degli «untori» di manzoniana memoria poiché, notoriamente, essi erano solo un fattore di trasmissione del male, non la sua eziologia. Certo importanti, non ne erano la causa ma un suo tramite; gli Ebrei, invece, in quanto deicidi, ne erano naturaliter i responsabili, per la loro colpa di origine, così come per gli stessi motivi religiosi lo erano le streghe. Anche qui il nesso tra violazione dell’ordine divino ed epidemia come punizione, appare più che chiaramente.

Il caso degli Ebrei è magistralmente descritto da Furio Jesi nel suo L’accusa del sangue, la macchina mitologica antisemita, quando prende come esempio paradigmatico di Ebreo medioevale uno dei protagonisti del Miracolo di Teofilo. Questo è un dramma liturgico, messo in scena la prima volta nel 1263, in cui l’autore, Rutebeuf, uno delle maggiori personalità artistiche del ‘200 francese, racconta la storia di san Teofilo di Adana che avrebbe prima, per vendetta, venduto la sua anima al diavolo e poi, pentitosi, sarebbe stato salvato dalla Madonna. Nel dramma il pio Teofilo, abbandonato da tutti perché aveva rifiutato di divenire vescovo, si reca dall’Ebreo Salatino e, per suo tramite, prima conclude un patto con il diavolo, che ovviamente gli frutta ricchezza ed onori ma la dannazione dell’anima, poi, pentitosi, invoca la Madonna. Nel nostro caso la figura centrale è quella dell’Ebreo Salatino che fa da tramite con il demonio, portatore di tutti i mali. Quest’opera, ci ricorda Jesi, fissa sino al ‘900 la figura del semita diabolizzato e tentatore, cui si appoggia la macchina generativa dell’immaginario antigiudaico, composto da temi quali l’invidia per la loro ricchezza, il disprezzo e la paura per il loro sapere, spesso anche scientifico, e soprattutto quello medico, che veniva visto con sospetto. E Jesi, opportunamente, conclude la sua riflessione proprio con l’omicidio rituale che si sarebbe codificato, partendo da questo immaginario, nel clima di paura e di terrore intorno al diffondersi delle epidemie di peste nel XIV secolo. Anche nel caso delle streghe la relazione diabolica è evidente, e le conseguenze analoghe.

La Spagnola

Guillaume Apollinaire tornò dalle trincee della Prima guerra mondiale con una grave ferita alla tempia. Un celebre quadro metafisico di De Chirico, dipinto prima del fatto, lo ritrae come una silhouette che sembra una sagoma di tiro al bersaglio con il centro proprio sulla testa, nel punto dove Apollinaire verrà effettivamente ferito. Ma, mentre il vate dell’avanguardia letteraria francese sopravvisse alla Grande Guerra, non ebbe la stessa sorte di fronte alla Spagnola, la terribile influenza che lo uccise insieme a molti altri del suo calibro, come Egon Schiele, Max Weber ed Edmond Rostand, tutte vittime illustri della ferale pandemia che, tra il 1918 e il 1920, causò la morte di decine di milioni di persone. Ad onore del vero, come sappiamo, il morbo non aveva nessuna origine prettamente iberica: si chiamò così solo perché la stampa spagnola, non compressa dalla censura bellica perché neutrale, ne parlò per prima.

Anche in questo tornate della relazione tra l’umanità ed i grandi flagelli, per certi versi forse il più drammatico dopo quello della peste nera del Medioevo, non mancarono di tornare in auge le ascendenze metafisiche ed i conseguenti sacrifici vittimari, acuiti dall’incapacità di una scienza, che già allora si credeva trionfante, di trovare alcun rimedio. Si pensi che la Relatività Generale di Einstein, la più grande teoria cosmologica scientifica che sostituì quella del Libero Muratore ed alchimista Newton, è del 1916. E così la virulenza della pandemia scatenò una serie di comportamenti del tutto simili a quelli che abbiamo visto nel caso della peste ad Efeso: in Cile si dette la colpa alle classi più povere, invasate dal demonio, arrivando a incendiarne le case. A Odessa la popolazione rispolverò rituali religiosi arcaici, gestiti da sciamani, per allontanare il flagello, mentre in Sudafrica si può dire che nacque l’apartheid poiché i bianchi accusarono i neri di essere razzialmente portatori del flagello. Ma forse il fenomeno più emblematico di questo nesso tra malattia e numinoso avvenne in Brasile dove il carnevale del 1918 venne dedicato alla Morte per Spagnola, con centinaia di carri che sfoggiavano demoni distruttori mentre nei riti del Candomblè il culto degli Orixa veniva gestito per esorcizzare il morbo dai corpi, ed una vera e propria febbre erotica avvolgeva i partecipanti al carnevale in nome di quella stessa Venere rigeneratrice della vita.

L’Aids ed il Coronavirus

L’ultima grande pandemia, peraltro ancora in corso, in cui forze sovraumane sono state evocate, è quelle da HIV degli anni ’80 del secolo scorso. Lo stigma di malattia inviata da dio per punire i costumi sessuali di alcune comunità, all’inizio le più colpite dal virus, è storia corrente. E questa sovrapposizione rende ancora più emblematico il fatto che, solo pochi anni dopo, l’attuale pandemia di Corona virus abbia cancellato di colpo ogni riferimento all’ultraterreno, al metafisico, oscurando al contempo quella relazione con la parte notturna ed irrazionale che però vive in ognuno di noi e che, se rimossa, si ripresenta, in forme secolarizzate, assumendo aspetti forse ancora più terrificanti. Come leggere altrimenti il conto delle vittime del coronavirus calcolato in base alla perdita di PIL? I giorni di quarantena presentati come una catastrofe economica globale? Il dio denaro, sotto forma dell’accumulo di oro, il metallo opposto a quello filosofico degli alchimisti, si è dunque definitivamente imposto sui vecchi dei? Il massimo della razionalità economica ci condanna al massimo dell’irrazionalità relazionale? Sono domande sensate, per cui non si tratta certo di tornare ai sacrifici vittimari, o di trovare nuovi untori, come peraltro qualcuno vorrebbe, ma più semplicemente, o difficilmente, riprender quella dialettica tra normalità e normazione, tra cura di sé e cura dell’altro, di cui parlava Foucault nelle sue ultime lezioni al College de France, lasciandoci in eredità le sue riflessioni sul letto di morte tutte rivolte a riconciliare l’umanità con i suoi mali visti come grande opportunità per riflettere sul senso stesso della vita. 

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