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Coronavirus, disoccupazione e fame incubo per migliaia di famiglie palestinesi

Coronavirus, disoccupazione e fame incubo per migliaia di famiglie palestinesiUn agente prende la temperatura a un lavoratore palestinese al rientro da Israele – AP

Territori occupati L’emergenza sanitaria si accompagna nella Cisgiordania sotto occupazione israeliana a quella per la perdita di migliaia di posti di lavoro. Intanto gli ospedali fanno i conti con i pochi mezzi disponibili per affrontare il Covid-19.

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 2 aprile 2020
Michele GiorgioGERUSALEMME

«Radio al Hara (Radio del quartiere) vuole dare voce ai palestinesi e a chiunque nel mondo, perché siamo uniti in una lotta comune per la vita e contro il coronavirus». Yazan Khalili è uno dei fondatori dell’emittente online che dal 20 marzo, con collegamenti da remoto ai quali partecipano musicisti, attivisti, gente comune, si rivolge a palestinesi e stranieri chiusi in casa. «Le nostre lingue sono l’arabo e l’inglese» ci dice Khalili, parlando a nome di un collettivo di una dozzina di persone, «chiunque da ogni angolo del pianeta può raccontarci le sue paure e i desideri che vorrà realizzare quando sarà finita la pandemia». Il tema più discusso è il lavoro. «Tanti in Palestina – aggiunge Khalili – ci raccontano di non avere più una occupazione a causa del coronavirus. Altri della paura di non avere tra qualche giorno i soldi per comprare almeno il pane».

 

I talk trasmessi da Radio al Hara confermano che l’emergenza sanitaria si accompagna nei Territori palestinesi sotto occupazione israeliana a quella della perdita di migliaia di posti di lavoro. Il problema si è sentito subito forte perché gran parte della forza lavoro palestinese non ha uno stipendio fisso e vive di occupazioni giornaliere. Tanti non entrano più in Israele dove solo alcune migliaia di manovali palestinesi possono recarsi a causa delle restrizioni anti-Covid varate dal governo Netanyahu. Migliaia di famiglie rischiano la fame per la chiusura di gran parte delle attività lavorative e lo stop ai movimenti delle persone nelle città autonome cisgiordane annunciati dal premier Mohamed Shtayyeh per proteggere il sistema sanitario palestinese che non ha possibilità di fronteggiare la pressione di migliaia di ammalati da coronavirus. «Sono risorti i comitati popolari della prima Intifada (1987-93)» spiega Jawad Malhi, pittore di talento nato e cresciuto nel campo profughi di Shuaffat, «tante persone raccolgono fondi, cibo, medicine e li distribuiscono a chi non ha più soldi per vivere». Questa rete di aiuto, avverte Malhi, non basta: «Se l’epidemia non cesserà, la fame dilagherà tra i palestinesi della Cisgiordania e quelli di Gerusalemme Est».

 

Il lavoro palestinese nello Stato ebraico è una delle cause della diffusione del virus. «Molti dei contagiati (122 in Cisgiordania e 12 a Gaza fino a ieri sera, ndr) sono operai che andavano in Israele dove il coronavirus corre veloce. Oggi (ieri), ad esempio, sono risultati positivi una dozzina di manovali palestinesi impiegati nell’area industriale di Atarot, tra Gerusalemme e Ramallah» ci dice il dottor Ali Abed Rabbo, direttore per la medicina preventiva al ministero della salute, ricordando i tanti casi di contagio nei villaggi di Qatanna e Biddu. «Stiamo facendo il possibile per evitare una situazione come quella in Lombardia» aggiunge Abed Rabbo «il sistema sanitario in Cisgiordania è fragile e conoscete gli enormi problemi di Gaza». È una corsa contro il tempo, afferma il medico palestinese, per rafforzare la difesa dal Covid-19. «L’impegno non manca ma non abbiamo sufficienti posti letto di terapia intensiva, respiratori e ventilatori. Al momento in Cisgiordania, negli 11 ospedali pubblici e in quelli privati, ci sono non più di 300 apparecchi per la respirazione assistita».

 

Non vanno meglio le cose a Gerusalemme Est. Il quotidiano Haaretz qualche giorno fa sottolineava che solo adesso, con settimane di ritardo, il ministero della sanità israeliano ha preso in seria considerazione l’esposizione al virus della popolazione della zona palestinese della città che lo Stato ebraico si è annesso nel 1967. I tamponi effettuati a Gerusalemme Est sono pochi e questo spiega il numero esiguo di casi positivi registrato sino ad oggi. «Il contagio invece è diffuso anche tra i palestinesi e se ne vedranno gli effetti. Soltanto ora cominciamo a ricevere dal ministero materiali e macchinari» riferisce il dottor Maher Dib, direttore dell’Ospedale Saint Joseph. «Tuttavia – avverte – non è possibile recuperare ora ritardi accumulati negli anni. Nel nostro ospedale ci sono per chi è colpito dal Covid-19 solo 28 letti di terapia intensiva e 9 respiratori polmonari. L’altro ospedale, il Makassed, ha appena 25 letti per i contagiati». E cresce l’allarme per i 5400 prigionieri politici palestinesi tra cui 60 donne e 127 minorenni. Un detenuto appena rilasciato, Nuredin Sarsour, si è ammalato nel carcere di Ofer rilanciando l’appello alla liberazione di tutti i prigionieri lanciato da Addameer e altre Ong per i diritti umani.

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