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“Coréennes” di Chris Marker, cinema in forma di libro

“Coréennes” di Chris Marker, cinema in forma di libro

Saggio fotografico È uscita da poco la ristampa di un libro di Chris Marker di grande fascino e che oggi si può considerare un lavoro estremamente importante per capire il suo modo […]

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 5 gennaio 2019

È uscita da poco la ristampa di un libro di Chris Marker di grande fascino e che oggi si può considerare un lavoro estremamente importante per capire il suo modo di vedere. Si tratta di Coréennes. L’ha pubblicato una piccola e preziosa casa editrice francese, L’Archnéen – dopo la postfazione dello stesso autore, datata 1997, si trova una interessante nota all’edizione da parte di Sandra Alvarez de Toledo, editor della casa editrice.

L’edizione originale del volume uscì nel 1959. Fu concepita come prima pubblicazione di una serie dal titolo «Courts-Métrages». L’editore era Seuil, cioè l’editore per cui Marker pochi anni prima aveva concepito, tra le altre cose, la rivoluzionaria collana di guide di viaggio dal titolo Petite Planète. Ora, nel percorso del genio francese, Coréennes si colloca in un periodo particolare. In quegli anni, come noto, c’erano già stati i primi cortometraggi e un progressivo spostamento verso Est. Inoltre, di lì a poco, avrebbe iniziato a prendere forma la sua relazione con quella «patria elettiva» (C. Gallini) che fu per lui il Giappone. In tutto ciò, a prescindere dai mezzi utilizzati, l’esercizio del viaggio e della documentazione con taglio e tono antropologici – benché si tratti di una antropologia vicina al «surrealismo etnografico» – non si è mai separato dalla testimonianza politica. Questo legame vale anche per un libro come Coréennes in cui «il popolo» in questione è quello della Corea del Nord, pochi anni dopo la fine della guerra che portò la divisione con il Sud. A questo proposito, si può quindi dire che l’interesse per la Corea del Nord nel Marker di allora si iscrive dentro un interesse più generale verso il quadro dei cambiamenti storici che avvenivano a quel tempo. Lui stesso lo precisa nella postfazione, in un passaggio dove fa riferimento ai suoi film su Cina e Cuba e dice, anche, qualcosa in più: «Qu’allions-nous chercher aux années cinquante-soixante en Corée, en Chine, plus tard à Cuba? Avant tout (et l’on oublie trop facilement aujourd’hui qu’on mélange allégrement ce qu’on fourré dans ce concept incertain d’«ideologies») une rupture avec le modèle sovietique. Ici la chronologie a son importance. Je n’appartiens pas à la génération tragique qui, portée par un espoir démesuré, s’est retrouvée complice de crimes démesurés.»

Analizzando nel dettaglio la struttura del libro, l’importanza di Coréennes si può apprezzare anche dal punto di vista compositivo. Difatti, si possono ritrovare alcune caratteristiche tipiche del cinema di Marker. C’è senza dubbio la qualità letteraria del testo, organizzato in una introduzione, Le 25 septembre 1866…, e sette capitoli con i seguenti titoli: «Les Six Jours», «Les Deux Orphelines», «Les Sept Merveilles», «Les Cinq Sens», «Les Trois Soeurs», «Les Neuf Muses», «Les Quatre Coins». Sono impressioni descrittive e narrative che mescolano osservazione e fantasia, annotazioni scientifiche e guizzo romanzesco, grande cultura generale e sincera curiosità per il particolare. Ma Coréennes include anche fotografie in bianco e nero, immagini di contenuto e formato diversi. Sono per lo più ritratti di singoli o di gruppo, luoghi, siti naturali. Qua e là appaiono persino riproduzioni di fumetti, poster, stampe. Il contesto visivo è multi-situato. Inoltre, quello che emerge nelle foto è una forte attenzione al tempo del lavoro e soprattutto al tempo libero, declinato in maniere diverse. Tuttavia, quello che rende il libro veramente markeriano è come tali immagini dialogano tra loro e, su d’un piano diverso, con la scrittura. Il montaggio immagine-immagine funziona spesso per sineddoche e analogia, mostrando continuità tra quelli che sarebbero, idealmente, scenari diversi. Invece, in relazione al testo, le immagini spesso funzionano come illustrazione e integrazione di quanto si può leggere. A ciò bisogna aggiungere anche una osservazione forse scontata ma che val la pena sottolineare: non c’è predominio della parola scritta sul visivo, e viceversa. Tutto si tiene, tra narrazione e invenzione. Alla fine, si potrebbe dire che, sul piano del linguaggio, Coréennes è un libro che racconta in modo particolare qualcosa, attraverso la scrittura e la fotografia – quindi, un libro di reportage, fotografico e, volendo, d’artista –, ma sarebbe forse più corretto dire altro. Cioè che si tratta di un oggetto che materializza, in forma di libro, una idea di cinema come modo di osservazione stratificato, dove tutto è segno, tutto è mobile, tutto può essere soggetto alla nostra attenzione e oggetto di rivelazione.

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