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Coree, chiuse le fabbriche a Kaesong

Coree, chiuse le fabbriche a Kaesong – Reuters

38mo parallelo Pyongyang blinda la zona economica comune con la Corea del Sud. A Guam missili Usa?

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 4 aprile 2013

Dopo aver effettuato i test nucleari, aver abrogato l’armistizio del 1953, aver tagliato le linee di comunicazione di emergenza, aver di fatto dichiarato guerra alla Corea del Sud e annunciato l’ampliamento dell’arsenale atomico a Kim Jong un rimaneva solo la carta di chiudere Kaesong. E, mentre scriviamo, il Wall Street Journal fa sapere che, secondo sue fonti, gli Stati uniti avrebbero inviato un sistema di difesa missilistica avanzata a Guam.

Il complesso industriale di Kesong poco al di qua del confine nord coreano con oltre 50mila lavoratori del Nord e 120 aziende sud coreane, con tanto di manager che ogni giorno varcano il confine due volte, per andare a lavorare e tornare a casa, è da sempre sintomo della temperatura delle relazioni tra Nord e Sud della penisola. Inaugurato nel 2004 come simbolo della cooperazione tra le due Coree era stato fermato momentaneamente nel 2009 come ripicca nordcoreana alle esercitazioni congiunte Usa-Seul. Ieri mattina il melodramma è iniziato all’alba quando la Corea del Nord ha fatto sapere di voler rallentare l’arrivo dei lavoratori al complesso.

Infine si è venuto a sapere che Pyongyang avrebbe deciso per la chiusura momentanea dell’impianto. Questo significherebbe la perdita di due miliardi di dollari all’anno per la Corea del Nord, ma vuol dire anche mandare a monte il business di oltre cento aziende sudcoreane che rivendono i prodotti a basso costo (abbigliamento, orologi, prodotti per le cucine) prodotti a Kaesong.

La Kaesong Complex Industry doveva essere una sorta di «oasi del capitalismo» in Corea del Nord. Nata dopo il fallimento di due progetti analoghi che la Corea del Nord avrebbe voluto al confine con Cina e Russia, ma che non divennero mai effettivi, Kaesong, una cittadina di 150 mila persone, vide partire il progetto industriale con i migliori auspici e con finanziamenti del gruppo Hyundai.

Il tentativo dichiarato era quello di trasformarsi nella Shenzhen cinese degli anni 90, una delle prime zone economiche speciali, basata per di più sulla stessa alchimia di Pechino: soldi stranieri e produzione a basso costo per l’esportazione. Entro il 2015 avrebbe dovuto allargarsi a circa 3mila aziende sudcoreane. A solo un’ora d’auto da Seul Kaesong permetteva all’epoca di pagare un lavoratore 57 dollari al mese, meno del 5% del salario di un omologo sudcoreano. Non solo, perché il governo coreano garantì sgravi fiscali alle aziende impegnate nell’area, che offriva anche una vicinanza rilevante al motore economico cinese. Sulla zona ha sempre pesato l’embargo voluto dagli Stati Uniti che ha limitato la produzione a generi e prodotti la cui esportazione era consentita (non permettendo ad esempio la produzione tecnologica).

Molti definirono Kaesong il matrimonio perfetto: tra i soldi del Sud e la manodopera del Nord.
Alla notizia della chiusura del confine, Seul ha reagito minacciando l’intervento militare immediato: nelle prime ore della mattina si parlava infatti di 800 lavoratori coreani di turno il giorno precedente, impossibilitati a tornare a casa. Per ore in Asia si è parlato apertamente di «ostaggi», con la temperatura che via via saliva verso vette pericolose.

Le ultime notizie hanno rassicurato sul ritorno della grande maggioranza dei sudcoreani, ma la situazione, con questa mossa di Kim Jong-un, è all’acme. Seul ha infine chiesto con insistenza garanzie circa la riapertura dell’area, invitando Pyongyang a non mettere in crisi anche l’ultimo barlume di cooperazione tra le due Coree.

La controprova della gravità della giornata di ieri si è potuta constatare attraverso la reazione di due potenze come Russia e Cina. Mosca ha fatto sapere di ritenere la situazione come «esplosiva». Pechino alla notizia del blocco di Kaesong, si è detta contraria a «dichiarazioni provocatorie o atti che minano la pace e la stabilità della regione da qualsiasi parte provengano».

I toni sono stati più alti del solito e Pechino ha ricordato a tutte le parti di «mantenere la calma e agire con moderazione». Ormai però per sbloccare la situazione non servono proclami o dichiarazioni d’intenti. A meno di non voler rischiare l’incidente che complicherebbe tutto.

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