Cordelli e l’ineluttabilità della forma-romanzo
Alias Domenica

Cordelli e l’ineluttabilità della forma-romanzo

Enzo Ungari e Patti Smith a Venezia nel 1979, Mostra Internazionale del Cinema: fotografia di Luca Fregoso, courtesy Marta Fregoso Basalto

Narrativa Trasformare la società o separarsene? Uscito nel marzo 1982, I puri spiriti di Franco Cordelli rispose all’incipiente dilagare di una narrativa «da falsari». Adesso lo ripubblica La nave di Teseo

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 26 novembre 2023

La copertina della prima edizione Rizzoli de I puri spiriti (che ora torna da La nave di Teseo, pp. 202, € 16,00) accoglie a tutta pagina una delle Illustrazioni alla Divina Commedia del Botticelli e si tratta, in particolare, di quella relativa al canto XXIX dell’Inferno, dove i falsari denudati tentano invano di placare la scabbia che li morde: nella clausola del testo in quarta di copertina, anonimo ma verosimilmente d’autore, Franco Cordelli scrive che la sua opera è appena un «“dono di senso”, come dovere e come colpa», e significa cioè, contemporaneamente, «l’impossibilità del romanzo e, pure, la sua irrevocabilità».

I puri spiriti è il terzo romanzo di Cordelli, che ha alle spalle un esordio folgorante (Procida, 1973, meteorite rinvenuta nella zona rigorosamente off limits del deserto neoavanguardista) nonché Le forze in campo, un’opera già di evidente maturità e non ancora abbastanza valutata, del ’79, che serba al proprio interno, stilizzandone voci e figure vicarie, tutta la violenza del decennio antagonista; ma I puri spiriti, che esce nel marzo del 1982, è anche una risposta non tanto e non solo alla reiteratamente conclamata morte del romanzo (corollario della cosiddetta «morte dell’arte» che inaugura il moderno) quanto alla banalizzazione del romanzo stesso ovvero al senso comune che ormai lo riduce a traliccio bon-à-tout faire ovvero a irenica enciclopedia di tutti i possibili narrativi: per il primo caso va ricordato l’eponimo Il nome della rosa di Eco, per il secondo il ben più cospicuo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, l’uno risalente al 1980 l’altro all’anno prima.

Ne I puri spiriti Cordelli opta, come suo costume, per una procedura indiretta e non ideologica perché ritiene la forma-romanzo, in sé, né obsoleta né rediviva ma semplicemente ineluttabile. È un modo, il suo, di immunizzarsi dalla scabbia narrativa che negli anni ottanta viene dilagando e per l’appunto è favorita da ogni specie di mutante o di astuto falsario. Nel suo caso (notevole per un autore di grande caratura intellettuale e antinaturalista dichiarato) la materia è sempre lavorata dall’interno ma per così dire calibrata dallo sguardo esterno o, viceversa, essa è dedotta e riportata in campo aperto, ma dichiarata o addirittura rivendicata per essere sospinta verso il suo moto interno, che è poi il battito della prosa di Cordelli, ora dispiegata e colma di volumi sintattici ora invece e di colpo convogliata in filamenti elettrici e clausole vibranti. (Qui ci soccorre la nuova immagine di copertina per cui La nave di Teseo sceglie stavolta un Jean Baptiste Mauzaisse dal titolo eloquente, Sic transit gloria mundi, sottoinsù, che per allegoria combina di scorcio, alludendo a uno sguardo retrospettivo, il gelo classico del marmo con una inopinata fioritura al presente).

Il romanzo si compone di quattro parti, differenti e concentriche perché si tratta di racconti del tutto autosufficienti e tuttavia intramati dall’interno sia dalla panoplia dei personaggi ovvero degli attanti sia dalla presenza ubiquitaria dell’autore che nei primi tre si esprime in prima persona mentre nell’ultimo egli è richiamato in absentia da un coro di voci le quali corrispondono via via ai detti personaggi. Nel primo, intitolato La superstizione (titolo che allude alla residua fede, dopo tutto, nella forma-romanzo, in questo caso di conversazione), ambientato nel centro storico di Roma e in una tarda estate anni settanta, l’autore vagabonda con i suoi amici (nomi siglati e ben riconoscibili di intellettuali e scrittori), tutti quanti presi nella ragnatela di rapporti, affetti e infortuni d’amore di cui il pettegolezzo rappresenta la degradata e inoppugnabile metafisica (perché Cordelli, va detto, è l’antipode di Arbasino e del cicaleccio epocale che abita Fratelli d’Italia, la cui seconda edizione è uscita da Einaudi nel ’76), ma tutti quanti sono tesi a un principio di individuazione («mi sono convinto che essere diversi è lo scopo della vita») in quanto autoaffermazione, ignari di essere immersi, scrive Cordelli in uno dei rari e tanto più potenti squarci paesistici, «nella luce dei vetusti palazzi romani, quella cinica luce che nessun traffico, normale o ridotto, riesce ad avvilire». Nel secondo, Il solista, che è un carteggio con le donne che costellano in un perpetuo va-e-vieni la vita del protagonista, costui è in viaggio a Palermo per curare una rappresentazione di Histoire d’O nel momento in cui le sue interlocutrici gli raccontano della grande manifestazione femminista (marzo del ’75) che dilaga fra Piazza Navona e Campo de’ Fiori: c’è pertanto ancora un viaggio, simbolo di conoscenza e però dentro un necessario spaesamento dove è l’altro da sé (tutto il femminile che pertiene alla sua vita e talora la assedia) a rammentargli un ostacolo, il senso del limite che pertiene strettamente al dare forma e all’arte medesima («scrivere resta l’unico tentativo possibile di eludere la tirannia dello spirito, ciò a cui ci riduce la nostra conversazione quotidiana»), come infatti conferma il capitolo successivo, La staffetta, che del precedente rappresenta una continuazione e insieme, per il protagonista, un atto di dolorosa riparazione.

Ma cruciale in ogni senso è il quarto e ultimo capitolo, Il seminario, dove anche è più visibile la traccia autobiografica che allude a una Biennale Cinema dove il protagonista è chiamato a discutere il suo romanzo in fieri, giusto I puri spiriti, di cui proprio il referto del seminario sarà la conclusione. Qui l’autore non esiste affatto, anzi non si vede, e al suo posto subentra la polifonia concorde e per lo più discorde degli amici (un Dario B. che cifra ovviamente Bellezza), delle compagne e delle amanti, dei critici letterari e per l’occasione cinematografici (e basterebbero i nomi di Maurizio G. ed Enzo U., cioè Grande e Ungari, figure eminenti, entrambi troppo presto perduti). Va aggiunto che si tratta di settanta pagine di rara bellezza e intensità dove, dissimulandosi, la sapienza dell’autore si inoltra silenziosamente nell’altro da sé e pervade ogni voce del coro, l’una differente dall’altra, realizzando un caso di autentica polifonia. Era infatti scritto nella quarta di copertina dell’edizione 1982: «Ciò che conta è il romanzo, l’atto demiurgico dell’evocazione, l’empia assiduità di ogni sostituzione e di ogni pretesa di spostamento – o sua trasformazione – della realtà. In effetti, l’autoriferimento è continuo; ed è quasi senza condizioni che il punto di partenza sia una “partenza eroica”, cioè una partenza da zero». E da zero ogni volta partirà Franco Cordelli ritornando fatalmente alla forma-romanzo per firmare (differenti strettamente affini, ben riconoscibili) alcuni apici della sua produzione da Un inchino a terra (’99) a La marea umana (2010) e Una sostanza sottile (’16).

Nel capitolo finale qualcuno rammenta che per il protagonista «non c’era la vita, la vita non esisteva, era un puro pregiudizio» e, per rifrazione, lo scrittore un giorno affermerà che per lui la letteratura è l’unica esperienza assoluta della vita, l’unica esperienza che rifiuti la vita come pura esperienza. L’arte del romanzo continua a esserne la testimonianza più esatta e se I puri spiriti fu pubblicato è per sottrarsi all’aria cupa di un avvilimento spacciato da non pochi falsari per Restaurazione o, finalmente, per permettersi il lusso di parlare nel deserto.

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