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Coraggio, curiosità e una lista di desideri

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Intervista Incontro con Béatrice Mousli, cui si deve la prima biografia di Susan Sontag, uscita da Flammarion, basata sulle carte donate dalla scrittrice alla University of California di Los Angeles

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 gennaio 2018

Nel dicembre del 2004, mentre il mondo osservava impotente il devastato panorama di morte lasciato sulle coste dell’Oceano indiano dallo tsunami, Susan Sontag si spegneva, a soli settantun anni, per la stessa malattia che, in un saggio del 1978, aveva tentato di liberare da ogni tipo di pensiero metaforico. È con questa immagine che inizia la dettagliatissima biografia della scrittrice, saggista e regista americana, che Béatrice Mousli ha appena pubblicato per le edizioni dello storico editore francese Flammarion, Susan Sontag (pp. 624, euro  23,00).

Considerata da alcuni con sospetto come «la dark lady delle lettere americane», o con piccato disprezzo come un’intellettuale sempre alla ricerca di visibilità, questa morte dietro le quinte del mondo, nascosta da quel «dolore degli altri» a cui Sontag aveva dedicato uno dei suoi ultimi e lucidi saggi sull’immagine fotografica, potrebbe sembrare un ironico contrappasso.

Nella sua monumentale e accuratissima biografia, Béatrice Mousli, che insegna alla University of Southern California di Los Angeles e che ha già raccontato le vite di Valéry Larbaud, Max Jacob e di Philippe Soupault, sostiene però che la controversa immagine pubblica di Susan Sontag fosse in realtà assai lontana da quella privata, ricostruita con perizia attraverso un numero impressionante di documenti inediti.
Sembra suggerirlo anche il delicatissimo ritratto fotografico realizzato da Peter Hujar nel 1975, scelto per la copertina di questo imponente volume di oltre seicento pagine. Abbandonata su un letto, Sontag vi appare vulnerabile, lontana dall’immagine di intellettuale ruvida e agguerrita, sempre e comunque contro.

È interessante che sia proprio questa l’immagine di lei che più si è consolidata, mentre quella della della scrittrice e regista – a cui Mousli presta particolare attenzione – sia quasi del tutto adombrata dalla fama di pochi scritti critici ormai divenuti canonici. Sono infatti saggi come Sulla fotografia o Note sul camp ad aver contribuito a plasmare il suo profilo di polemista d’avanguardia, guardiana di mode e novità intellettuali in una cultura, quella americana, che esalta il nuovo sopra ogni cosa.

Nonostante Susan Sontag si sia espressa con particolare veemenza contro quella che considerava la valenza conservatrice della pratica interpretativa, nella sua biografia Mousli cerca proprio entrare nella sua vita ricostruendone non solo le tappe fondamentali, ma anche i percorsi di significato all’interno della sua opera. Sontag credeva che morire «rendesse una persona leggibile», che facesse emergere un ordine anche nelle esistenze più confuse e contraddittorie. Se non un ordine, la biografia scritta da Béatrice Mousli, che ho incontrato a Los Angeles, ci mette di fronte alla complessità intellettuale e creativa di una figura comunque centrale nella cultura americana ed europea del secondo Novecento.

Questa non è solo la prima biografia francese di Susan Sontag, ma la più completa fino ad ora pubblicata. In cosa si differenzia il suo lavoro dai precedenti dedicati a questa icona intellettuale?

Dal fatto che io ho avuto accesso per la prima volta al suo archivio, che si trova alla University of California di Los Angeles, ora aperto al pubblico. Un lavoro dedicato alla sua vita era uscito nel 2000, quando Sontag era ancora viva e lei ne era rimasta particolarmente contrariata, perché gli autori, Carl Rollyson e Lisa Paddock, le sembravano non solo estremamente critici nei suoi confronti, ma anche schierati contro di lei per partito preso. Prima di morire, Sontag aveva proibito a parenti e amici di rispondere alle sollecitazioni dei suoi biografi. Non credevo che, dieci anni dopo la sua morte, avrebbero accettato di parlare come me, soprattutto perché non stavo scrivendo una biografia autorizzata. Ho contattato suo figlio, David Rieff, come racconto nella mia introduzione: è stato molto cordiale, ma mi ha detto esplicitamente che non mi avrebbe né aiutata, né concesso un’intervista. Mi ha solo ricordato che gli archivi erano disponibili per gli studiosi secondo precisa volontà di sua madre.

Restiamo dunque all’archivio. Quali sono gli aspetti più sorprendenti della personalità di Susan Sontag emersi nel corso dalla sua ricerca?
Tra i documenti più affascinanti ci sono le tantissime liste che Sontag ha stilato durante la sua vita. È un aspetto di lei che ricorda Perec. Ha compilato elenchi di ogni tipo: i film visti, quelli che voleva vedere, i suoi film giapponesi preferiti, i migliori cento romanzi scritti da donne, i luoghi che voleva visitare, la lista delle cose da fare prima di morire, e ha elencato decine di intenzioni… Ogni lista ci dice qualcosa delle sue passioni, di quanto dubitasse spesso di se stessa, di quanto imperfetta si sentisse, del suo desiderio di condividere i suoi interessi, di promuovere ciò che amava…

Sontag ha sempre provocato reazioni contrastanti, non solo nel suo paese. Che cosa l’ha resa una figura così controversa?

È stata – e in un certo senso lo è ancora – una figura che suscita pareri opposti. Certi la trovavano arrogante, sentenziosa, o la vedevano come troppo vicino alle mode. Inoltre, per via del suo eclettismo veniva tacciata di superficialità. Possedeva davvero il talento di irritare le persone, e la diplomazia non era certo il suo forte. Non aveva peli sulla lingua e non sapeva nascondere i suoi sentimenti… Era diretta con gli amici, con i nemici – le sue schermaglie con Camille Paglia ne sono un buon esempio –, e ovviamente era molto franca circa le questioni politiche. Le sue affermazioni pubbliche avevano l’effetto di bombe, e le sono sopravvissute. Tutti ricordiamo ancora, per esempio, ciò che scrisse sulla «Partisan Review» nel 1967: che «la razza bianca è il cancro della storia umana». O le sue dichiarazioni sul comunismo nel 1982, il suo rifiuto di rappresentare i terroristi dell’ 11 settembre come «codardi», e le sue accuse a George W. Bush pochi giorni dopo il crollo delle Torri Gemelle. Le femministe l’hanno vista come una traditrice perché si rifiutava di sostenere ciecamente «la» lotta, mentre la comunità LGBT l’ha rimproverata fino alla fine per non aver mai parlato apertamente della sua omosessualità.

In «Sulla fotografia» Sontag scrive che guardare una cosa significa cambiarla. Lei spera che il suo sguardo su questa autrice così discussa possa modificare in nostro modo di percepirla. E come?

Ciò che più spero di avere mostrato è il suo coraggio, la sua incredibile determinazione: giusto o sbagliato che fosse, Susan Sontag ha fatto tutto con passione e con curiosità. In genere, mi interessano soprattutto le figure eclettiche, portate dalla loro curiosità ad andare in tante direzioni diverse, spesso in modo imprevedibile… Ciò che voglio far vedere quando scrivo una biografia è la vita della mente, i meccanismi della creatività, come funziona una psiche, e come una vita venga messa a servizio di un’opera.

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