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Copioli, autoritratto intransigente con Yeats

Copioli, autoritratto intransigente con YeatsWilliam Butler Yeats ritratto nel 1933 dal fotografo Ian Pirie MacDonald

Personal Criticism Il valore rivelativo del fare poesia: un libro-bilancio di Rosita Copioli (Ed. Ares) sulla sua quarantennale fedeltà all’autore irlandese, primo dei moderni

Pubblicato circa un mese faEdizione del 8 settembre 2024

Rosita Copioli, poetessa e saggista fra le più notevoli, in un quarantennio di fedeltà di lettrice aveva già parlato in varie occasioni del gran genio di Yeats. Ora, nel ponderoso William Butler Yeats Omero in Irlanda (Edizioni Ares, pp. 392, € 25,00), scrive a un certo punto: «Dalla letteratura Yeats pretendeva che incarnasse il muoversi della vita, così contraddittorio e inafferrabile; che fosse la forma più alta di conoscenza, come nella magia di certi umanisti: filosofia e preghiera, sacrificio e religione ricondotti alle origini» (p. 69). E ancora, quasi settanta pagine dopo, giudicando la poesia di Yeats dotata di «diversa potenza straniante» rispetto a quella di T. S. Eliot, afferma che essa «rovescia i tempi, porta tutti all’indietro, e avanti, nel crogiolo del tempo, e dell’assoluto indicibile» (p. 136). Afferma, insomma, che, almeno in apparenza, la poesia di Yeats fa qualcosa di simile a ciò che canta Eliot in Burnt Norton, uno dei Quattro Quartetti, dove il tempo passato e perfino il tempo possibile diventano funzioni interiori di un fine «sempre presente»; ma lo fa, a differenza di Eliot, senza concedere niente al principio-speranza che abita l’idea cristiana, aperto com’è alla mistica percezione di un altro tempo inquietante, non salvifico, irrassicurante.
Avvicinare e studiare in modo partecipato Yeats è come entrare in un oriente metafisico. Come per i maghi e gli sciamani, così anche per Yeats il faticoso esercizio dell’immaginazione può portare in luoghi profondi e territori inesplorati della mente. Assetato di pensiero e filosofia per la conoscenza in sé, e non solo per tessere il complesso e minuzioso sistema che avrebbe organizzato negli anni della fase ultima e più ricca della sua opera, Yeats non può evitare la metafisica semplicemente perché «è un poeta e vuole capire», come ne scrisse in una sagace testimonianza del 1947 Mario Manlio Rossi, studioso eminente di Berkeley e della tradizione platonica, che era stato il «consulente» filosofico di Yeats negli anni trenta: sebbene il nesso causale che, secondo Rossi, lega l’essere poeti all’esigenza di voler capire, non abbia convinto più di tanto i poeti e i letterati italiani del Novecento messisi all’ascolto del verbo dell’Omero d’oltremanica. Per il quale la volontà di capire significava, innanzitutto, leggere in termini simbolici il reale (l’assoluto indicibile) che sta nel cuore segreto della realtà, col perseguire una ricerca interiore collegata a doppio filo all’ermetismo e alla sapienza mitica che va dai Veda a William Blake.
Impiegatizi e metropolitani quali erano, per la Copioli, i poeti e i letterati nostrani – compresi i più yeatsianamente ben disposti, da Montale a Bertolucci – colsero sì alcuni aspetti dell’eccezionalità del premio Nobel irlandese, ma non gli perdonarono quelli che ritenevano i confini angusti, o addirittura cialtroneschi, della sua cultura. E la cosa non sorprende. In primis perché la frequentazione ostentata di Yeats di una vasta congerie di tradizioni sapienziali e certe sue sciagurate infatuazioni politiche lo connotavano ai loro occhi, in via pregiudiziale, come un attardato esponente di una supposta ideologia «di destra». E poi, anche perché non c’era nessuno, fra di loro, che avrebbe potuto sognarsi di scrivere, e figuriamoci di apprezzare, versi pieni di forza meditativa ma spavaldamente astratti come per esempio: «…Occhi vuoti sapevano / che la conoscenza aumenta l’irrealtà, che tutto lo spettacolo / è specchio su specchio rispecchiato. // Quando gong e conchiglia annunciano l’ora di benedire / la gatta Grimalkin striscia verso il vuoto di Buddha».
L’intermezzo di trentacinque immagini inserito fra la prima («Viaggio in Yeats») e la seconda parte («Saggi») del libro ci mostra Yeats per sette volte. La più toccante delle fotografie che lo ritraggono è quella a p. 168 del febbraio del 1939, in cui il poeta, pochi giorni prima di morire, appare a letto, semisdraiato, nella camera dell’Hôtel Idéal Séjour di Mentone. Porta gli occhiali, ha i baffi, un folto pizzetto e i capelli bianchi scarmigliati. Questa foto intima e struggente gliel’ha scattata sua moglie Georgie Hyde-Lees. Dotata di facoltà medianiche qual era, di suo marito in punto di morte George (come l’ha sempre chiamata lui) ha fissato un fermo-immagine che riesce a connettere, condensandoli, il suo personale struggimento esistenziale con l’universo mitopoietico del grande visionario suo consorte. Al centro dell’istantanea non sta il volto assorto di Yeats – con gli occhi semichiusi del morto-in-vita che sembrano poter ispezionare chissà quali paesaggi scavati a forza dalle vene nascoste del mondo –, ma la sua esile mano destra abbandonata sul plaid, a pochi centimetri dal gatto che poltrisce lungo disteso sopra di lui.
L’ardente amore per i gatti, la fascinazione per la logica combinatoria che li lega al mistero cosmico fin dai tempi de Il gatto e la luna (1917), diventa qui un’iperbole gestuale, nella quale è forse possibile riassumere il senso, in uno spazio-tempo sospeso fra il terrestre e il soprannaturale, del richiamo dell’oltre che ritorna in diverse evocazioni feline di Yeats. Da Minnaloushe, appunto, il gatto della celeberrima poesia e del dramma omonimo, alla Grimalkin di Le statue (1938), con il suo patente richiamo shakespeariano, nella prima scena del Macbeth, dove il gatto Graymalkin aiuta le tre streghe a guardare nel futuro dell’eroe.
Si è accennato alla bipartizione strutturale del libro della Copioli. Della prima parte non si sa bene se si tratti di un saggio e/o di un racconto sornionamente non-fiction. A metà fra un romanzo di formazione (auto)biografica e un acuto esercizio di critica letteraria, «Viaggio in Yeats» è una sorta di zibaldone d’autore, dove il pensiero ruota intorno a Yeats, alla sua vita e alle sue passioni e scritture, ma coinvolge anche Fellini, Manganelli, Pontiggia, Balzac, Jung, i figli Anne e Michael e la nuora di Yeats, Pat O’Shea, Kathleen Raine ed Elémire Zolla, in un viaggio insieme fisico e ideale fra Rimini, Bologna, Roma, Milano, Torino, Dublino, Gort e i dintorni di Galway, le isole Aran, Sligo e la Bretagna, e intanto macina idee «forti» e spesso anacronistiche: la poesia come qualcosa che agisce sull’anima e la trasforma, il desiderio del nuovo che si riconosce nelle radici dell’antico, l’opera letteraria come un opus che ha da coincidere con l’uomo che lo realizza.
Nella seconda parte, invece, si trovano raccolte tutte le introduzioni alle opere e alle antologie di saggi yeatsiani curati dall’autrice in veste di studiosa, insieme a due testi d’occasione. Entrambi questi scritti contengono dei versi di Yeats, resi in italiano dalla stessa Copioli con sottigliezza complice. Ma il primo dei due, «Acanti dall’Irlanda» – che introduceva: W. B. Yeats, L’artificio dell’eternità. Saggi sull’arte (Medusa 2015) – si chiude con un fitto florilegio di traduzioni che occupa ben diciassette pagine e contiene anche alcuni fra i testi poetici più noti di Yeats: Ego Dominus tuus, La Municipal Gallery rivisitata, Le statue, cioè la poesia con la gatta Grimalkin che striscia verso il vuoto di Buddha, Bisanzio e Verso Bisanzio col suo incipit folgorante («That is no country for old men… ») che è diventato il titolo, vent’anni fa, di un bel romanzo cult di Cormac McCarthy.
Il risultato della giustapposizione di questi diversi binari stilistici è un’opera preziosa su quello che molti, non a torto, considerano il più grande poeta di lingua inglese dopo Shakespeare. Ma è anche un libro-rivelazione su Rosita Copioli, perché forte è la sensazione che, muovendosi sulle tracce del primo (in più sensi) dei moderni, l’autrice abbia «giocato» qui a fare il bilancio della sua stessa vita: un autoritratto per interposta persona, che delinea un percorso intellettuale duttile eppure intransigente nel voler (ri)dare valore rivelativo all’esperienza della poesia.

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