Una santa o una strega? Non lo sapremo mai, o forse le due cose hanno in fondo lo stesso significato. Miu, protagonista di Copenhagen Cowboy – la nuova serie di Nicolas Winding Refn presentata all’ultima Mostra del cinema di Venezia e ora su Netflix – rimane avvolta da un alone di ambiguità. Interpretata da Angela Bundalovic – vista in The Rain e Limboland – sembrerebbe inizialmente minuta e inoffensiva, quasi persa nel contesto in cui si ritrova catapultata, una cricca di albanesi dediti allo sfruttamento della prostituzione. Miu è lì però per un altro motivo, ovvero compiere un miracolo. E la misteriosa ragazza è in grado di farlo, nella misura in cui si tratta di agire direttamente sui corpi, eliminando il dolore, donando la vita o la morte.
Il regista danese torna con un’altra serie dopo Too Old To Die Young del 2019, prodotta da Amazon. Stavolta, con Netflix, le cose sembrano essere andate molto meglio – Refn si è detto entusiasta, mentre la creatura di Bezos avrebbe, secondo le sue dichiarazioni, boicottato la promozione del lavoro per la paura di un cattivo ritorno di immagine. In ogni caso, la serialità appare al momento la forma preferita dall’autore, se l’ultimo film The Neon Demon risale ormai al 2016.

SICURAMENTE la temporalità espansa permette a Refn di dar vita ad un ritmo bizzarro, un andamento lento che procede però per improvvisi scatti in avanti. La storia di Copenhagen Cowboy appare infatti poco più di un pretesto, al regista danese interessa imporre la sua estetica, proiettare il suo immaginario fatto di luci al neon, vestiti curatissimi, acconciature perfette, sesso, droga e violenza. C’è indubbiamente un tono lynchiano in questo lavoro, una sospensione dell’atmosfera che si concretizza spesso in lunghe panoramiche orizzontali a 360°, ma se Twin Peaks è in grado di toccare corde profonde nel dare spazio al misterioso e al deforme, Copenhagen Cowboy si ripiega su un’esaltazione della violenza che rimane, forse volutamente, superficiale e un po’ futile, senza riuscire ad affondare gli artigli, senza stimolare grandi riflessioni.
Quasi tutti i gruppi umani incontrati da Miu appaiono sostanzialmente abietti. Gli albanesi già citati, poi i malavitosi cinesi. Ma è con i danesi che Refn si abbandona ad una critica dissacrante. Basti pensare che invece di parlare spesso grugniscono come maiali. C’è poi la famiglia nobile dove vive l’antagonista della nostra eroina – presumibilmente è lui il «Copenhagen Cowboy» del titolo. Un lignaggio la cui logica della vita è imperniata sul riconoscimento del potere che solo il membro maschile può conferire. Il regista dà così un tocco di una vaga critica sociale alla serie, giusto per essere in sintonia con i tempi – i cattivi da combattere in fondo sono i tradizionalisti sessisti danesi, i più pervertiti di tutti. Ma è proprio alla provocazione della perversione che Refn sembra essere sensibile.

LA MUSICA è sicuramente un punto di forza della serie, pochi giorni fa è stata pubblicata, in formato digitale, la colonna sonora firmata tra gli altri da Cliff Martinez, collaboratore di vecchia data del regista. Tappeti electro dal ritmo ossessivo, sintetizzatori in stile anni ’80 che riecheggiano John Carpenter, spesso contribuiscono ad esaltare quei momenti topici a cui il regista tiene di più e che incornicia in figure che tendono all’immobilità, quasi come dei tableaux-vivants da ammirare. I sei episodi di Copenhagen Cowboy – durano circa 50 minuti l’uno – sono tutt’altro che conclusivi, la trama della serie si interrompe in maniera così deliberata che è impossibile non pensare che un secondo capitolo sia stato già messo in cantiere.
L’intreccio si sviluppa via via nella direzione di una lotta tra bene e male, nonostante la figura della protagonista e i suoi poteri rimangano avvolti da una certa ambiguità, forse l’aspetto più interessante. Che Refn piaccia o no, quel che è certo è che si vede quando dietro al timone di una serie c’è un’idea di regia, rispetto a molti prodotti impacchettati senza alcuna creatività ma per puro consumo e compulsivo «binge watching».