Convivere con la natura nell’epoca della «grande cecità»
Festival della dignità umana Un estratto dall’intervento di domani ad Arona, dedicato all’era dell’Antropocene
Festival della dignità umana Un estratto dall’intervento di domani ad Arona, dedicato all’era dell’Antropocene
Fino a poco tempo fa, i nomi delle ere geologiche si apprendevano a scuola: nomi strani, da mandare a memoria, quando venivamo interrogati dai professori di scienze, nomi spesso destinati, subito dopo, a cadere nell’oblio, perché difficilmente entravano nelle nostre conversazioni. Non fa parte, per esempio, del sapere comune il Cenozoico, l’era iniziata 65 milioni di anni or sono e in cui tuttora viviamo. Occorre fare un certo sforzo per afferrare il significato di questo termine, che letteralmente vuole dire «nuova vita», dal greco kainòs (nuovo) e zoè (vita): è infatti l’era della comparsa di nuove forme animali, soprattutto dei mammiferi. In quanto parte di un sistema classificatorio, il Cenozoico si suddivide a sua volta in diversi periodi. Il periodo nel quale viviamo per i geologi si chiama Olocene: nome strano anche questo, che letteralmente significa «affatto nuovo», «del tutto recente» (dal greco holos, «intero», e ancora kainòs, «nuovo»), che viene fatto iniziare 11.700 anni fa, dopo l’ultima glaciazione del Pleistocene.
SAREMMO andati avanti nella nostra sonnacchiosa ignoranza delle ere e dei periodi geologici, se a un olandese, esperto di chimica dell’atmosfera, non fosse venuto in mente di sostenere che no, ora non siamo più nell’Olocene, siamo in qualcosa di più recente ancora: siamo nell’Antropocene, in un periodo in cui il «nuovo», la novità, non è data da eventi o processi esterni all’umanità, ma dall’impronta vigorosa e profonda che le azioni degli esseri umani hanno determinato sul pianeta in cui essi vivono.
L’inventore del termine Antropocene è il premio Nobel Paul Crutzen, il quale, studiando la chimica dell’atmosfera, aveva documentato l’alterazione della sua composizione, soprattutto a causa del rilevante aumento di anidride carbonica e della preoccupante riduzione dello strato di ozono nella stratosfera. Da quando nel 2000 è stato proposto il termine Antropocene, la nostra ignoranza non è più tanto beata. È vero che la maggior parte degli esseri umani continuano a svolgere le loro attività esattamente come prima, come se non avessero conseguenze importanti sul piano geologico, ma scienziati da un lato e certi politici dall’altro hanno cominciato a dare un nome sempre più diffuso e riconoscibile alle loro preoccupazioni. Nel frattempo, la categoria Antropocene non riguarda più soltanto i cambiamenti climatici che l’alterazione dell’atmosfera sta producendo.
DENTRO all’Antropocene, a questo intenso e globale processo di antropizzazione della Terra, vengono collocati fenomeni altrettanto preoccupanti: il riscaldamento del clima, lo scioglimento dei ghiacciai, la deforestazione, la desertificazione, l’aumento demografico della popolazione umana, l’uso sempre più spinto dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas), l’urbanizzazione incontrollata e la cementificazione del territorio, l’invasione dei rifiuti (come la plastica negli oceani). Sembra di poter dire che, pur con la consapevolezza racchiusa nella nozione di Antropocene, le attività umane continuano a esercitare un’alterazione sempre maggiore degli ecosistemi a livello globale e, al di là di certi processi già avviati e di certe previsioni scientifiche, quale futuro attenda l’umanità e le altre specie viventi è un problema aperto. Che si tratti però di un futuro assai problematico – in termini di conflittualità per le risorse e persino di sopravvivenza della nostra e di altre specie – questa pare essere una certezza.
È DAVVERO questione di anthropos, della specie Homo sapiens, oppure non è forse meglio puntare lo sguardo verso forze, movimenti, tradizioni che hanno preso il sopravvento nella storia mondiale a partire appunto dal Settecento, e che hanno sconvolto i modi di vita e di produzione a partire dall’Europa e poi via via in tutte le parti del mondo? Sarebbe difficile negare l’opportunità di questa rettificazione. Ma è altrettanto opportuno rendersi conto che i regimi che nel Novecento si erano ispirati al comunismo (come l’Unione Sovietica e tuttora la Repubblica Popolare Cinese) non sono stati certo da meno nella partecipazione attiva e determinante alla cultura dell’Antropocene in generale e, più in particolare, alla «Grande accelerazione»: una cultura, quella dell’Antropocene, che a tal punto pone al centro l’Uomo – i suoi bisogni, le sue aspirazioni, il suo «sviluppo» – da trasformarlo in un agente geologico massimo, così da non poter fare a meno di intitolargli addirittura un periodo specifico della storia della Terra. Nessuna specie animale ha mai avuto questo onore.
SI PUÒ RIMEDIARE ai guasti presenti e sempre più incombenti? In primo luogo, occorrerebbe che la cultura sull’Antropocene – così esile ed elitaria – riuscisse a impregnare la greve cultura dell’Antropocene, affetta com’è dalla «Grande Cecità», di cui parla con angoscia Amitav Ghosh. Occorrerebbe inoltre un ritorno indietro di tipo antropo-poietico: dall’idea folle di voler farsi Homo Deus (secondo la definizione di Harari) all’accettazione di essere non più che Homo Sapiens, ossia una specie che, arrivata sull’orlo del baratro, voglia rimpossessarsi di certe forme di «saggezza», coltivate da molte società umane le quali, in diverse parti del mondo, hanno voluto fare della convivenza con la natura il loro principio fondamentale. Con il loro sapere etnologico, gli antropologi possono, anzi debbono, dare una mano nel recupero di queste forme di saggezza.
Nel frattempo, sarebbe bene prestare orecchio a quanto, dalle profondità della foresta amazzonica, Davi Kopenawa, uno sciamano yanomami, non si stanca di ripetere al Popolo della Merce, i Bianchi, a cui rimprovera di avere un «pensiero corto e oscuro»: infatti «i Bianchi non pensano molto lontano davanti a sé», essendo «troppo preoccupati dalle cose del momento», presi come sono da «un desiderio senza limiti» di merci, di oro, di denaro. È ora che la smettano di «maltrattare la terra» e di «sporcare i corsi d’acqua», di «mangiare la nostra foresta con tanta voracità»: è ora che reimparino ad amare la foresta, e smettendo di pensare di essere dèi, come se «non dovessero scomparire mai», accettino di essere come le altre specie della Terra.
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Il Festival in corso fino al 20 ottobre
Il «Festival della dignità umana», dedicato è in corso in Piemonte (Arona, Briga Novarese, Novara, Borgomanero, Orta San Giulio, Torino) fino al 20 ottobre. Tra gli ospiti Marco Aime, Aldo Bonomi, Alessandra Cislaghi e altri. Francesco Remotti interverrà domani ad Arona (ore 21, sala consiliare del Comune).
www.festivaldignitaumana.com
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