Estrarre da una lastra di cemento un’ala leggera è il lavoro che apre la mostra di Luca Monterastelli, artista di cui, nonostante le personali, la formazione e le residenze, non diresti mai che è nato nel 1983 per il carotaggio di pensiero impresso alle sue «opere fotogrammi».

UNA SUA MOSTRA la si può vedere fino a ottobre (con obbligo di prenotazione come impone il tempo dell’epidemia) alla mitica galleria di Lia Rumma, tra Piazza dei Martiri e Riviera di Chiaia, dove il mare bagna Napoli, i palazzi sono sempre magnificamente ad altezza di sogno, gli androni danno sempre su un giardino mediterraneo e i limoni guardati dalla finestra, «sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata divinità».
La mostra si chiama Weightless, o «pesare nulla», nella non letterale traduzione che meglio descrive l’operazione artistica esistenziale di lasciare segni alari nella pesante trama materica della realtà. A volte i movimenti che si fanno orma nel cemento sono celestiali, come soffio d’aria capace di innalzare la pietra ad elemento volatile, altre sono istintuali come certi graffi di bambini, altre ancora disturbate da una complessità di movimento, che sembrano il ritratto delle ore in cui la pesantezza del cuore aggroviglia la linea quieta della vita.

Nella seconda stanza il cemento cede il passo al ferro zincato di cui sono fatti i tubi che attraversano la parete. Sono gli involontari occhi su un mondo divelto dalla tecnica. Rimangono, tuttavia, occhi gentili, telescopi intimi che sanno tirare fuori con compassione l’umano dall’alienato e ci ricordano che anche noi, in fondo, siamo tubi piantati in un terreno eppure sospinti verso altezze siderali.

SI RITORNA ALLE LASTRE, poi, che si fanno di ferro e sulle quali ricompaiono certi tagli alla Fontana ma non sono segni di un attraverso, piuttosto squarci in questo tempo che inchioda. Si oscilla nel pensarli i segni umani primitivi o lo scarabocchio sul taccuino del telefono e poi ci si ricompone pensando che in entrambi i casi quello che appare in filigrana è l’atavico bisogno di dire qualcosa, siamo ansia di comunicare e desiderio di capire.
La prima scultura commuove, sarà che la luce di un mezzogiorno del sud sa rendere ancora più candidi questi gessi di uomo, questi busti tagliati con gambe tagliate, questi membri tubolari, questo stare seduti sulle cose nella propria fragile sostanza di creta bianca, appena toccata, che ripercorre la manualità di ogni creazione, quel vedere comparire sotto le mani la forma imperfetta della nostra esistenza. Si chiude con una stanza della meraviglia, ispirata al gabinetto segreto del museo archeologico di Napoli.

«Volevo ricreare quelle conversazioni erotiche mute che mi colpirono del museo di Napoli, mettere in contrasto la parte vitale dell’erotismo con quella immobile delle statue, per raccontare la sovrabbondante duplice forza dell’amore, la trasferibilità della nostra energia su un corpo oggettuale», ci racconta Monterastelli, riferendosi all’ultimo gruppo di «sculture concettuali», come sono state chiamate. Come questo artista anche la sua arte sembra non solo non avere il peso, sembra anche non avere il tempo. Essere da sempre.