Il 19 maggio scorso muore a 81 anni Jean-Louis Comolli, noto come documentarista in stile Nouvelle Vague e quale teorico del cinema, essendo, altresì, «veterano» dei Cahiers du Cinéma, la rivista che, sotto la sua direzione, per prima affronta i problemi del linguaggio filmico anche in chiave politica. Pochi ricordano però che – oltre esser stato per anni redattore del mensile Jazz Magazine -, assieme al musicologo Philippe Carles, firma un libro fondamentale per la storia della musica afroamericana, Free Jazz/Black Power uscito in Francia per Édition Champ Libre nel 1971 (ristampato nel 2000 negli economici Folio) e prontamente tradotto e curato da Giorgio Merighi per Einaudi nel 1973: un libro spartiacque, anche in Italia, per capire, all’epoca, cosa significhi suonare e vivere il free o la new thing, come viene denominato il jazz più sperimentale, oltranzista, rivoluzionario apparso al di là e, quasi subito, al di qua dell’Oceano Atlantico. Anche oggi il Comolli jazzologo è molto citato, benché, stranamente, nel nostro paese non esista alcuna riedizione (tranne l’immediata seconda del 1974, a dimostrazione dell’exploit subitaneo imprevisto), a differenza di quanto accaduto con altri due «classici» similari di studiosi legati al marxismo come Storia sociale del jazz (1959 e 1963) di Francis Newton (Eric Hobsbawm) e Il popolo del blues (1963 e 1968) di LeRoi Jones (Amiri Baraka), ora presenti in libreria con nuovi editori.

UN CASO EDITORIALE
Free Jazz/Black Power è un saggio critico-storico che rappresenta anzitutto un autentico caso editoriale, in un paese come l’Italia, dove il jazz, fino a quel momento, viene come relegato ai margini della cultura ufficiale (assente ad esempio in conservatori, università, festival classici, media popolari). Il fatto che il volume di 349 fitte pagine esca nella prestigiosissima PBE (Piccola Biblioteca Einaudi) dimostra l’esigenza di voltare pagina da parte di uno sparuto gruppo di intellettuali progressisti. Va infatti ricordato che il marchio Struzzo, nella sede torinese di via Biancamano, quando ogni mercoledì si riunisce il comitato direttivo, presieduto dal patròn Giulio, può vantare, nel 1973, intellettuali di sinistra quali Italo Calvino e Massimo Mila, favorevoli al jazz, a differenza dei quadri dirigenti del Pci; per un Mila che già nel 1935, prima di finire in carcere per antifascismo, recensisce l’unico concerto italiano di Louis Armstrong, bisogna aspettare l’arrivo di Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure, affinché, proprio nel 1973, il Partito organizzi a Bologna il convegno «L’impegno dei comunisti per il rinnovamento della vita musicale», con le successive timide aperture, nei festival de l’Unità, ai recital di simpatizzanti, dai gruppi Area e Perigeo ai gruppi di Mario Schiano e di Giorgio Gaslini.
Il clima è ancora incerto: all’Einaudi sono aperti tanto al jazz quanto a nuovi segni di cultura moderna, giudicati invece ostili da un partito, che si pone, fin dal dopoguerra, al comando dell’intellighenzia nazionale, esprimendo però ancora un sapere di ascendenza stalinista-zdanoviana, salvo rare eccezioni di comunisti «libertari» e perciò «liberi», come Giangiacomo Feltrinelli, di fondare una propria casa editrice, scevra da ortodossie e non a caso pronta a stampare nel 1959 Il manuale del jazz dello statunitense Barry Ulanov, raffinato autore con il quale è proprio Einaudi, sei anni dopo, a inaugurare la propria breve stagione jazzistica, di fatto composta da un trittico iniziato appunto con la poderosa Storia del jazz in America (1965), proseguita con il pamphlet Il popolo del blues e culminato con Free Jazz/Black Power.
Soprattutto il saggio di Jones/Baraka – uscito negli Usa quando iniziano a dilagare la protesta afroamericana e l’orgoglio nero e la musica stessa compie «passi da gigante» (per usare un’espressione riportata come titolo di un coevo seminale album di John Coltrane) – risulta il fiore all’occhiello di una collana di tascabili, Il Politecnico, che si riaggancia idealmente all’omonima rivista postbellica di Elio Vittorini e Cesare Pavese, facendo riflettere gli italiani sul jazz in un modus per così dire politico. Il jazz nel e del Sessantotto appare non solo quale disciplina colta, matura, rispettabile, ma soprattutto come specchio dei tempi, trattandolo, sulla base dei jazzisti, a livello di un’arma pacifica utile a combattere le discriminazioni razziali ancora presenti nella contraddittoria società americana, che proprio nel 1968 colpirà Martin Luther King e Robert Kennedy, esponenti di un rinnovamento in crescendo.

FASCISMI LATENTI
Come, dopo un lustro, le pagine di Carles/Comolli, così ora, in piena contestazione generale, quelle de Il popolo del blues, servono di riflesso a contrastare, in musica, i fascismi latenti nelle democrazie europee: sono infatti coevi più o meno al libro i primi due tentativi di free politico europeo, a Milano con il citato Giorgio Gaslini, nella capitale con il Gruppo Romano e Free Jazz, guidato dal sax tenore di Mario Schiano, che ha alla batteria Franco Pecori, una sorta di Comolli italiano dal momento che si occuperà, anche a livello teorico sia di jazz sia di audiovisivi (notevoli Cinema. Forma e metodo e Cinema, arte, TV. Spazi e funzioni della critica nel sistema dei mass-media, rispettivamente del 1974 e del 1977).
Da Il popolo del blues a Free Jazz/Black Power il passo è breve, giacché i due francesi riprendono l’assunto politico del sociologo e poeta afroamericano, aggiungendo quanto di sconvolgente accade in ambito musicale nella cronologia fra le date delle due pubblicazioni: dal 1963 al 1971, infatti, divampa il free, già anticipato attorno al 1958 dai lavori di Ornette Coleman, Cecil Taylor, Charles Mingus: per il jazz è un’autentica rivoluzione copernicana, ancor più radicale, forse esteticamente cruenta, di quanto accaduto, un ventennio prima con il bebop di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell, Kenny Clarke. Carles e Comolli tentano, per primi, di spiegare cosa stia succedendo, soprattutto nel sondare il terreno della Storia con la S maiuscola, fino a riscrivere le vicende degli ultimi ottant’anni di cultura afroamericana.
E la Storia viene indagata non solo dalla musicologia di Carles ma soprattutto, grazie a Comolli, alla luce delle sciences humaines (etnologia, psicanalisi, semiotica, politologia ecc.) decise a scardinare pregiudizi, cliché, banalità, luoghi comuni sul «giezz» dei «poveri negri», in un’Italia ormai pronta ad accogliere ad esempio le nuove istanze giovanili riversate anche sulla musica quale valore sociopolitico aggregante. Non è un caso, difatti, che Free Jazz/Black Power arrivi quando i primi jazz festival nostrani si trasformano in eventi di massa, dove un pubblico hippie, mai visto prima, corre ad applaudire o a contestare, a seconda delle scelte più o meno opportuniste e demagogiche di sponsor e organizzatori: l’Umbria Jazz tra il 1973 e il 1975 è un trionfo inaspettato persino da parte degli stessi musicisti: non a caso Archie Shepp intitolerà A Sea of Faces (1975) un album in ricordo della folla riversata da corso Vannucci a piazza IV Novembre per volerlo ascoltare, in un programma condiviso, quell’anno, con Cecil Taylor, Charles Mingus, McCoy Tyner, Elvin Jones, Ted Curson, Gaslini e i Cadmo.

GUSTO POLEMICO
Free Jazz/Black Power stimola inoltre la critica italiana a osare di più: in parallelo, nello stesso 1973, per Guanda esce il Canto nero: il free jazz degli anni Sessanta di Giampiero Cane, primo docente, sulla Penisola, a ottenere una cattedra sull’argomento, ossia Civiltà musicale afroamericana presso il Dams di Bologna. E Canto nero sembra quasi il pendant teoretico: da Mingus alla Liberation Music Orchestra, con il gusto della polemica, il professore intende spiegare e in particolare riflettere sulle nuove sonorità afroamericane, innescando complessi assiomi filosofici, che spaziano dalla critica militante al marxismo ortodosso, arrivando a scandagliare il mondo black attraverso la lente del free: fattore di identità etnica e coerenza artistica. E non sarà un caso che circa due anni dopo, tra il 1974 e il 1975, usciranno altri tre libri fondamentali. C’è ancora l’Einaudi con Musica nel nuovo mondo. Storia della musica americana di Wilfrid Mellers, dove il musicologo classico ripartisce equamente, da vero illuminato, l’apporto della produzione dotta e quello della creatività popolare, lasciando in bell’evidenza il folklore, il musical e soprattutto il jazz. Torna la Feltrinelli con il libello Musica totale di Gaslini, il quale, antesignano della ricerca già nel 1958 con l’ep Tempo e relazione teorizza il proprio credo artistico, a metà fra dichiarazione poetica e teoria pura, guardando a un jazz europeo come libera associazione di fermenti sia classici sia popolari. Ma è soprattutto la Mondadori a creare il bestseller (e a tutt’oggi il maggior longseller jazzistico) con Jazz: la vicenda e i protagonisti della musica afroamericana di Arrigo Polillo, direttore del mensile Musica Jazz e inviso ai progressisti per le posizioni eccessivamente moderate, a licenziare il testo completo che metterà tutti d’accordo grazie a ricerche accurate e prosa godibile.
Tornando a Comolli, l’intento di Free Jazz/Black Power, assieme a Carles, è scrivere una controstoria del jazz dalle arcane origini alla stretta attualità. Per tali ragioni il duo, senza troppo insistere (come invece avviene per Jones) sul blues quale trait d’union fra diverse epoche, rimarca soprattutto sia la tragedia interiore delle singole personalità sia l’africanismo sempre più evocato dagli stessi jazzisti; nel libro risulta quindi fondamentale il vocalismo femminile fra gli anni Venti e Quaranta del XX secolo, di chi, da Bessie Smith a Billie Holiday, attraverso i patimenti individuali, esterna la tragedia di un popolo; di conseguenza, i due giudicano con estrema negatività il dixieland e lo swing che, a loro parere, sviliscono il potenziale insito nel «jass» originario, ad eccezione di Duke Ellington autentico teorico di una fiera blackness attraverso la propria raffinata Orchestra. E inoltre, quasi da militanti della blackness, nel libro rivalutano enormemente due pianisti/cantanti, fino ad allora messi un po’ ai margini, anche se per ragioni antitetiche: Fats Waller e Ray Charles, rispettivamente esordienti prima e dopo lo swing, scandalizzano persino i benpensanti afroamericani, il primo grazie all’ostentata autoironia, il secondo con il sound «brutto, sporco e cattivo», entrambi a prendersi gioco del sistema, pur agendo al suo interno, in piena autonomia.
Ovviamente, per quanto concerne il modern jazz, l’amore è rivolto soprattutto al bebop del citato Charlie Parker e a quell’hard bop coraggiosamente spintosi verso l’avanguardia grazie a un manipolo di solisti che influenzeranno significativamente la new thing medesima, che oggi sembrerebbe circoscritta ai pochi soliti nomi, come quelli citati, a cui aggiungere Eric Dolphy, Albert Ayler, Sun Ra, Don Cherry, Sunny Murray e il John Coltrane della svolta post-modale; ma se per quanto accade prima del 1960 il testo si limita a raccontare per sommi capi, arrivando alla new thing vengono addirittura a essere analizzati cento musicisti nella parte finale, dove di ciascuno sono redatti notevoli profili biografico-professionali.

DIECI DISCHI PRIMA DEL FREE
«Scuotere la storia, quella del jazz, quella del popolo del blues, quella dell’America che lotta contro se stessa, il peso dei fantasmi del passato, il peso dei fantasmi degli schiavi che tornano a ballare la notte nella testa delle persone, il free jazz scuote le catene del corpo nero che è nella storia dei bianchi, invisibile, fuori campo. Quando pubblicammo questo libro, era il primo gennaio 1971, i Blacks erano le Pantere Nere (e non il rugby neozelandese), Malcolm X era stato assassinato e il suo profeta non era ancora nato davvero, Julius Hemphill stava formando la sua prima band a Saint Louis e Joe McPhee, con Clifford Thornton, aveva già registrato il suo Nation Time, Spike Lee era a scuola e la cortina di ferro era schierata, LeRoi Jones si chiamava già Amiri Baraka, il Workshop de Lyon era ancora chiamato Free Jazz Workshop, George Jackson veniva assassinato in prigione e Mumia Abu Jamal non era ancora nel braccio della morte, ecco cosa non è cambiato, ecco cosa è cambiato». Così scrivono, circa trent’anni dopo, per la ristampa del 2000 Carles e Comolli per connotare in fondo l’attualità non solo del libro, ma di una musica che è ancora tutta da riascoltare, come suggerisce l’abbondante discografia posta in calce al volume, di cui si possono riprendere alcuni suggerimenti, focalizzando l’attenzione sui soli dieci dischi che, nella storia del jazz, precedono l’avvento del free a livello di corollari estetici, culturali, antropologici, sociali.
Bessie Smith, The Complete Columbia Recordings (Cbs, 1923-1934)
«Fu Bessie Smith che, con la sua voce e con il suo modo di cantare, mi aiutò a ritrovare la mia lingua dell’infanzia e a ricordarmi le cose che avevo udito visto e provato. Le avevo cacciate lontane dal fondo del mio animo. Non avevo mai ascoltato Bessie Smith in America (…) ma, in Europa, mi ha aiutato a riconciliarmi con il fatto che sono un negro»: James Baldwin, romanziere e saggista afroamericano.
Billie Holiday, Strange Fruit (Mainstream, 1939)
«(…) canzoni-confidenze-testimonianze, tra le quali la più celebre, Strange Fruit, è dedicata a un linciaggio; benché fosse amica di molti bianchi, affermava – rispondendo amaramente al blues di Big Bill Broonzy When Do I Get to Be Called a Man? – che ‘per tutti i Bianchi tu sei comunque un nigger’» scrivono Carles e Comolli a proposito di Billie Holiday.
Duke Ellington, Black, Brown and Beige (Victor, 1944)
Per gli autori di Free Jazz/Black Power il Duca – anche grazie a questa sua prima bellissima suite – appare come il jazz all’epoca più vicino al garveismo, il movimento «nazionalista» inventato dallo studioso afroamericano Marcus Garvey per rivendicare la fierezza etnica, con i neri che dovrebbero impegnarsi a unirsi e organizzarsi non solo per resistere all’oppressione bianca, ma soprattutto per fondare in Africa un nuovo stato indipendente.
Charlie Parker, The Bird on Savoy (Savoy, 1945-1948) e The Definitive Charlie Parker (Verve, 1948-1954)
Gli autori sostengono che con il sassofonista nel dopoguerra emerge l’immagine di un black musician tanto stimabile quanto tragico, che, in quanto «artista incompreso» prende il posto del jazzista divertente nell’immaginario americano; la poetica bop di Bird non verrà capita da tutti ma «se ne sentiranno gli effetti e sarà alla fine accettata specie per il suo fondo emozionale, per il senso tragico di cui è pervasa».
Horace Silver Trio, Message from Kenya (Blue Note, 1953)
L’Africa diventa protagonista di molti brani jazz, ancor prima del free, grazie al valoroso batterista Art Blakey, autore di questo pezzo per un album del suo allievo pianista: bopper della prima ora e in seguito, quasi subito, promotore dell’hard bop sino alla morte, il drummer si richiama all’Africa quale punto di riferimento culturale, andando persino in loco a studiare ritmi e percussioni locali.
Sonny Rollins, Freedom Suite (Riverside, 1958)
Si tratta del primo album jazz apertamente politico, tanto nell’omonima suite per tenore, contrabbasso e batteria a occupare l’intera prima facciata del long playing, quanto nelle note di copertina redatte dallo stesso Saxophone Colossus, in cui rivendica valori come libertà, emancipazione, democrazia in riferimento alle genti afroamericane costrette ancora a subire lo strapotere dei bianchi.
Max Roach, We Insist! Freedom Now Suite (Candid, 1960)
Il batterista già iniziatore del bebop mette insieme una band eterogenea – lo swinger Coleman Hawkins, il percussionista africano Olantunij, la moglie cantante Abbey Lincoln e alcuni hardbopper – per una suite di trentasei minuti che suona già free nelle intenzioni quale segno di protesta contro le ingiustizie verso i neri a qualsiasi latitudine. Non a caso il disco viene censurato nel Sudafrica dell’apartheid.
Charles Mingus, Original Fables of Faubus (America, 1960)
Il brano dedicato alle menzogne del senatore razzista dell’Alabama esprime derisione e odio – come in certi vecchi blues – mentre voci e strumenti, come grida ossessivamente reiterate all’interno di melodie e ritmi, accentuano il clima oppressivo grazie alla maestria del leader contrabbassista con un impeto e un furore che preannuncia già la svolta radicale del free jazz.
John Coltrane, Africa (Impulse, 1961)
In questo disco – che precede di ben quattro anni la svolta free dell’autore con Ascension (1965) – come nei molti dei colleghi dell’hard bop che usano la parola Africa o il sostantivo africano/a nei loro album, Carles e Comolli notano che «il free jazz è già ideologicamente presente nei movimenti che lo precedono e dei quali rappresenterà la radicalizzazione e/o la critica».