La sanità italiana è ingiusta o, meglio, classista: «Funziona per tutti ma funziona meglio per le persone più colte e più abbienti. Il reddito e il titolo di studio a ogni latitudine di questo Paese fanno la differenza tra quanto si muore e tra quanto ci si cura». Non è una constatazione empirica ma la fotografia dell’attuale Servizio sanitario nazionale, universalistico per vocazione in ossequio alla Costituzione ma non nei fatti. Lionello Cosentino (ex assessore al ramo della regione Lazio) e Carlo Saitto (responsabile Unità operativa Controllo di gestione dell’Asl Roma 1) danno con precisione la misura di questo scarto nel libro La sanità non è sempre salute. Dalle disuguaglianze nella mortalità tra i municipi di Roma a un’idea diversa di sanità per tutti (Il pensiero scientifico editore, pp. 216, euro 22, saggio introduttivo di Walter Tocci).

GLI AUTORI SGOMBRANO il campo da un equivoco fondamentale, alla base del malfunzionamento del sistema: l’efficacia del Servizio sanitario non va valutata in base alla capacità economica di fornire prestazioni e tanto meno dal numero di prestazioni erogate, come fatto finora. Questa piuttosto è una scelta che presuppone «un modello costruito sull’equilibrio neoliberista tra domanda e offerta». Il paradigma proposto è del tutto rovesciato: «Il metro per valutare l’efficacia di un sistema sanitario che si vuole universalista dovrebbe essere l’equità nella distribuzione tra i cittadini dei suoi benefici e cioè la sua capacità di produrre salute, contrastando le disuguaglianze tra le persone e tra le comunità».

La capacità di produrre salute è una delle pietre angolari che ci permette di misurare le disuguaglianze sociali del paese. Il dato della mortalità ci permette persino di quantificare la distanza tra realtà locali: «La mortalità generale in Campania per i maschi è del 40% più elevata di quella che si osserva nella provincia di Bolzano e quella del Molise è inferiore del 20% a quella del Lazio. In Campania si muore di più, molto di più e prima che in provincia di Bolzano, nel Lazio di più e prima che in Molise». Roma consente un’analisi precisa della correlazione tra livelli di reddito e accesso alle cure: «Tra il municipio con il reddito medio più basso (Municipio VI) e quello con il reddito medio più elevato (Municipio II) la differenza nel tasso standardizzato di mortalità è pari al 25%».

L’analisi serrata dei dati consente agli autori di disvelare come le diseguaglianze economiche agiscono. Il reddito spiega il 63% della variabilità nei ricoveri per infarto e appena il 23% della variabilità del tasso di mortalità: «Nei municipi a basso reddito aumenta la probabilità di andare incontro a un infarto ma non quella di morire per la stessa malattia. Il servizio sanitario recita in questa partita un duplice ruolo: quello del malandrino che non riesce a tutelare i cittadini più disagiati e a prevenire l’insorgenza dell’infarto, e quello del benefattore che una volta accaduto il peggio ti salva la vita. Il primo compito presupporrebbe la presa in carico della persona, che il malandrino non sa fare, il secondo solo la gestione efficace e tecnologica della sua malattia acuta».

LA SOLUZIONE PROPOSTA è una diversa organizzazione dei Servizi sanitari regionali basata sui distretti. Non come erogatori di servizi ma come enti di gestione in grado, perché prossimi ai territori, di connettere e organizzare gli attori in campo intorno alle richieste di salute che arrivano dalle singole comunità: «Nelle condizioni di disagio sociale ed economico è più difficile per le persone riconoscere i propri bisogni e chiederne la soddisfazione. Il servizio sanitario non offre generalmente percorsi ma prestazioni e servizi e per giunta li offre solo a chi li richiede. Il compito di un servizio sanitario non è evidentemente, in questo caso, quello di assecondare una domanda di assistenza inesistente, inadeguata o magari inappropriata, ma di sostenere le persone e le comunità».