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Contro la sicurezza, con l’aggravante del futile motivo

Contro la sicurezza, con l’aggravante del futile motivo

Morti da profitto Negli anni ’70, i lavoratori del gruppo omogeneo di rischio costruivano, senza delega ai sindacati, vertenze per salute e sicurezza, individuando gli interventi adatti

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 29 maggio 2021

L’allora PM Felice Casson così chiudeva la lista degli imputati e delle imputazioni nel rinvio a processo di Porto Marghera, per le morti operaie da cloruro di vinile e per l’ecocidio della Laguna di Venezia: “con l’aggravante del futile motivo: il profitto”. La Procuratrice di Verbania ha espresso lo stesso concetto, con parole diverse, nel caso del crimine della funivia del Mottarone davanti all’evidenza della esclusione, con i “forchettoni”, dei freni di emergenza della cabina la cui attivazione avrebbe salvato 14 persone. E’ una “linea rossa” in cui si intrecciano abusi, arroganza, violazione delle norme e il dolore delle vittime e dei famigliari che hanno difficoltà ad avere giustizia (leggasi: riconoscimento delle responsabilità oltre agli indennizzi).

È una linea che passa dal microinterruttore o fotocellula manipolati per poter mantenere aperta la protezione e uccidere Luana a Prato, dal ponteggio incompleto o assente (tanto è un lavoro di breve durata), da cui “cadono” i lavoratori e arriva alle mancate manutenzioni del Ponte Morandi, alle multiple responsabilità della Strage di Viareggio o a quelle di Pioltello. In questi ultimi casi, Mottarone incluso, vi è anche il gioco di specchi tra pubblico e privato. Il primo “concede” un bene comune a un soggetto privato e poi decide di guardare altrove, di non controllare l’operato del concessionario anche quando le implicazioni sulla sicurezza in presenza di comportamenti “scorretti” sono pesanti.

Probabilmente non emergeranno responsabilità penali per gli enti pubblici “proprietari” ma queste vicende dimostrano l’assoluto fallimento (per la sicurezza, non certo per l’economia) di scelte basate sulla “semplificazione”, le autocertificazioni, “azienda in un giorno”. I lacci e lacciuoli dei controlli che infastidiscono e si tramutano nel controllato che diventa il controllore di sé stesso, ancora attuale con il DL “semplificazioni”, pendant del PNRR. Nel frattempo il ministro di turno (e le Regioni per la loro parte) hanno pensato bene di rendere ancora più difficili i controlli falcidiando e spedendo in pensione (quota 100) i dipendenti pubblici dei servizi di vigilanza o burocratizzando la loro azione.
Tornando al caso del giorno: nessun errore umano, la scelta volontaria di non intervenire, di non manutenere per incrementare il profitto principale regola delle attività produttive (per molti, l’unica) anzi di rendere inattive i “requisiti essenziali di sicurezza”.

Si torna bruscamente agli anni ’70 quando i lavoratori della Montedison di Castellanza denunciavano la politica aziendale del “non manutenere o manutenere il meno possibile” assumendosi il rischio che veniva ritenuto accettabile dalle aziende sottoscrivendo assicurazioni per i possibili e prevedibili danni ai lavoratori. Proprio allora emerse un modello “alternativo”: i lavoratori con il gruppo omogeneo di rischio, basato sulla non delega (nemmeno ai sindacati), costruivano vertenze per la propria salute e sicurezza in fabbrica, studiando e individuando gli interventi di risanamento e chiedendo la modifica o la cessazione di processi produttivi nocivi.

“La prevenzione si fa con l’impiantistica” affermava Luigi Mara: si evitano infortuni progettando, realizzando e manutenendo luoghi di lavoro e macchine a misura d’uomo (e di donna). Non è più il contesto di allora, oggi i sindacati, pur chiedendo miglioramenti condivisibili nelle norme (già di per sé idonee, ove rispettate, a prevenire infortuni e malattie professionali) rimangono attaccati alla logica dei “patti” e dei “tavoli” con le controparti. Modalità finora fallimentari, come accaduto per l’accordo tra Sindacati confederali e Confindustria “Salute e sicurezza. Attuazione del patto per la fabbrica” del 12.12.2018, se non esplicitamente spartitorie (della partita della formazione e dell’azione dei rappresentati dei lavoratori per la sicurezza).

In Lombardia l’accanimento è ancora più accentuato. Come ammesso dall’Assessore Moratti i tecnici della prevenzione, sono passati dai già carenti 794 del 2014 ai 683 del 2020 (e solo una parte sono dei servizi PSAL) e il piano di assunzioni (45 operatori) sottoscritto nel 2018 dopo la strage della Lamina (4 lavoratori uccisi per asfissia), a costo zero (pagati con gli introiti delle sanzioni) è quasi del tutto inattuato (viene riproposto tal quale oggi) cianciando negli ultimi anni di passare da un approccio “repressivo” (leggasi controlli nei luoghi di lavoro) all’empowerment (“assistenza”) alle imprese (che si può fare anche in smart working). Assistenza alle imprese, non ai lavoratori/lavoratrici.

Quale altra via è possibile? Una è quella di riprendere il contatto e il confronto quotidiano tra rappresentanze dei lavoratori e i servizi di prevenzione delle ASL. Oltre al numero è una questione di approccio: il tecnico ASL entra in una azienda, sanziona e fa prescrizioni per il rispetto della norma, attua uno dei suoi compiti ma poi chiude la porta dietro di sé e, quasi sempre, non riesce a costruire un rapporto con i lavoratori. Occorre l’interlocutore pubblico, indipendente, il cui compito istituzionale è quello dell’attuazione dei diritti alla salute e alla sicurezza, con cui confrontarsi e, ognuno nel suo ruolo, arricchire un percorso preventivo non basato sulla (rara) buona volontà del datore di lavoro e dei suoi consulenti. Se il post Covid necessita di una “società della cura”, i luoghi di lavoro pretendono da sempre una visione sociale (e un servizio sanitario) fondata sulla prevenzione, con la consapevolezza che non si potrà raggiungere questo obiettivo delegando ad altri, ma solo con la partecipazione individuale e collettiva di tutti.

* Presidente Medicina Democratica – Tecnico della Prevenzione

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