Visioni

Contro la guerra devastatrice la lucida visione di Euripide

Contro la guerra devastatrice la lucida visione di EuripideGiovanna Marconcini in «Ecuba, la cagna nera»

A teatro Giovanna Marconcini in «Ecuba, la cagna nera», tratto dalle «Troiane», per la regia di Dario Marconcini

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 17 dicembre 2022

Fa una grande impressione, oggi che molti artisti e intellettuali prendono vibrante quanto inane posizione contro la guerra che ci troviamo a vivere, sentire le parole scritte da Euripide più di 25 secoli fa, che risultano ancora fortissime, e le più crude e insieme nobili contro questa cattiva abitudine dell’umanità. Basta una donna (un’attrice di alto livello, certo) che ci ripeta le parole di Ecuba prese dalle Troiane che il poeta scrisse nel quinto secolo avanti Cristo, per scoprire l’orrore, di avvenimenti e di comportamenti perversi, cui la guerra può indurre. È successo nei giorni scorsi, una sera dopo l’altra, al Teatro di Buti, sulle colline toscane. Giovanna Marconcini, da sola in scena, seduta, si è rivestita del personaggio e della tela di juta della tragica e ormai spodestata regina di Troia, sconfitta assieme alla sua città, al marito Priamo, e alla numerosa figliolanza. I figli maschi uccisi, il nipote Astianatte scaraventato giù dalle mura, le figlie femmine (quelle che non sono state uccise come Polissena) date in schiave come Cassandra e come lei stessa del resto, agli «eroi» vincitori dell’esercito greco guidato da Agamennone (inutile ricordare che quella decennale kermesse sanguinaria, raccontataci da Omero prima che dai poeti tragici, nasceva anche quella dalle pretese amorose di Paride e della bella Elena, pronuba la stessa Venere).

Sulla scena di Buti risuonano parole antiche di terribile attualità

SULLA SCENA di Buti (per la regia di Dario Marconcini, che sale anche in scena a scolpirne una lapidaria conclusione), tutto è spoglio, ma circondato all’inizio da un gigantesco panorama di rovine, di una delle tante guerre che negli ultimi decenni ci è toccato attraversare, nella ex Jugoslavia come in qualche landa ucraina. In quello scenario di morte, senza più traccia di vita, Ecuba tira fuori tutto il suo risentimento, verso gli uomini e verso gli dei, verso i vincitori ma anche quasi contro se stessa, per quanto è costretta ora a subire. Non le bastano i ricordi, tutti insanguinati: non ha prospettive, se non quelle di una «cagna» in cui identifica la propria situazione, e in cui il mito la trasforma davvero dopo la partenza dalla sua patria.
Parole antiche, che molti già conoscono, magari come ricordi liceali. Ma che risuonano ora di maledetta attualità. La visione di Euripide, così umana e lontana ormai da ogni mitologica sacralità, esprime tutto lo sgomento, l’impotenza, e la rabbia per il dover soccombere davanti a un tale ordine del mondo. Con questa Ecuba, la cagna nera si allontanano, svaniscono proprio i privilegi del rango e tutti quelli del mito: è una pura, totale umanità della debolezza quella che fuoriesce come un fiume in piena. Di parole dure, di dolori incolmabili.

CHE TANTO più colpiscono perché erompono da una donna che ha vissuto privilegi regali, in quel favoloso e favolistico regno orientale in Asia minore.
Giovanna Marconcini (che non a caso ha fatto cinema diretta da Straudb e Huillet) ce ne evoca in qualche istante il fascino antico (un suono di intonazione vocale, un gesto strappato a qualche visione di danza a Marrakesch) quasi a contrapporlo alla piattezza crudele dell’oggi. Le sue parole però, che sono quelle di Euripide, danno il dolore delle frustate. Non c’è più speranza nel loro suono, per tutta l’umanità. Se non quello di una grande interpretazione.

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