Il doppio effetto pandemia/guerra sta mettendo in ginocchio il sistema agroalimentare globale. Lo spettro della carestia si sta infatti materializzando in molti paesi in via di sviluppo, quelli che dipendono in particolare dalle importazioni di grano. In realtà, la povertà economica generata dalla pandemia, la scarsità dei raccolti dovuta al global warming e agli eventi estremi accaduti in varie parti del mondo, l’effetto guerra sulla produzione ed export dell’Ucraina in particolare, l’incremento dei prezzi dell’energia in corso ormai da tempo hanno generato una combinazione perfetta per rappresentare uno scenario assai problematico già nel breve periodo. Uno scenario che, almeno secondo un recente dossier dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Side Effects: Ukraine and the MENA’s Looming Food Crisis, Ispi 25 aprile 2022), determinerà un concreto rischio di carestia per quasi 50 milioni di persone in più di 80 paesi e genererà proteste popolari, che ricordano peraltro quelle di una decina di anni fa nei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente per il pane, la cosiddetta Primavera Araba. Il razionamento in queste aree è già iniziato.

IL TAGLIO DEI RACCOLTI IN UCRAINA e le difficoltà di trasporto a causa della guerra hanno provocato nei due mesi di guerra un balzo del 22% dei prezzi mondiali del grano al Chicago Board of Trade, punto di riferimento mondiale del commercio delle produzioni agricole. Ma ad aumentare del 17% sono state anche le quotazioni del mais destinato all’alimentazione animale e tutte le principali produzioni agricole. Con la guerra si rischia infatti che vengano a mancare dal mercato oltre del grano mondiale con l’Ucraina, che insieme alla Russia controlla circa il 28% sugli scambi internazionali con oltre 55 milioni di tonnellate movimentate, ma anche il 16% sugli scambi di mais (30 milioni di tonnellate) per l’alimentazione degli animali negli allevamenti e ben il 65% sugli scambi di olio di girasole (10 milioni di tonnellate). Gli effetti a cascata su tutte le componenti delle filiere agroalimentari, dalla logistica agli imballaggi, sono e saranno sempre più rilevanti anche nei paesi sviluppati.
La situazione è tale dall’aver indotto sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea a rivedere le politiche economiche ed agricole prevedendo sostanziosi interventi e rimodulamenti. Ad esempio, l’amministrazione Usa sta destinando 5 miliardi di dollari all’aiuto alimentare globale, mentre l’Ue ha rimesso in gioco i 9 milioni di ettari destinati a non essere coltivati per favorire le misure volte a mitigare il cambiamento climatico nell’ambito della riforma della Politica agricola comune (Pac).

SE DA UN LATO NEI PAESI SVILUPPATI questa situazione non dovrebbe generare problemi di approvvigionamento immediati, ad ora le corse all’accaparramento non si giustificano, è evidente che nel medio periodo l’impatto sull’economia sarà più che evidente. Del resto, l’inflazione in aumento (anzi la stagflazione per essere più precisi), certamente non aiuterà l’evoluzione positiva di questo scenario già assai compromesso, specialmente pensando alle fasce più deboli della popolazione, sempre più numerosa. Se non ha senso parlare – anche se qualcuno lo sta facendo ma probabilmente con altri fini – di sovranismo alimentare ed autarchia agricola (si pensi all’auto-approvvigionamento di grano duro in Italia, se vogliamo mantenere una quota di esportazione sarebbe totalmente insufficiente) – vale tuttavia la pena capire a livello locale e globale cosa si potrebbe fare oltre a diversificare le fondi approvvigionamento, come si sta facendo con l’energia (cosa non immediata e facile) e regolare meglio il mercato agroalimentare internazionale delle cosiddette commodity (grano, mais e altri prodotti standardizzati), troppo spesso legate a speculazioni che poco hanno a che vedere con l’andamento reale delle produzioni.

IN QUESTO CONTESTO c’è infatti un aspetto sul quale non si è fatto ancora abbastanza e che potrebbe invece dare dei risultati anche nel breve e medio periodo. Riguarda le perdite e spreco alimentare, mantenendo la definizione Fao che distingue correttamente ciò che si perde lungo la filiera (produzione, trasformazione, distribuzione) per ragioni legate alla tecnologia e l’organizzazione, da ciò che si spreca a livello domestico che riguarda invece i comportamenti alimentari. Secondo la Fao, ogni anno nel mondo vengano persi o sprecati mediamente quasi 74 chili di cibo a testa, più del peso medio di una persona; a livello mondiale, il totale delle perdite/sprechi alimentari è pari a quello di 23 milioni di camion da 40 tonnellate; quasi 1,4 miliardi di ettari di superficie agricola mondiale viene usato per produrre alimenti che poi non vengono utilizzati. Questi dati sono a fronte di oltre 800 milioni di persone che vivono nell’emergenza alimentare, in aumento come visto sopra, e di circa 1,6 miliardi di esseri umani che invece risulta in sovrappeso o addirittura obeso. Un quadro per così dire paradossale: i malnutriti per difetto sono la metà di chi si nutre in eccesso, e oltre tutto più del 30% (sempre stime Fao) di ciò che si produce a livello agricolo non arriva sulle nostre tavole ma si perde/spreca da qualche parte generando un doppio costo: economico ed ecologico (oltre all’aspetto etico di gettare via il cibo ancora buono da mangiare).

Decisamente i conti non tornano, e qui ci limitiamo a considerare solo la perdita/spreco di alimenti e non il fatto che una parte rilevante della produzione agricola viene destinata all’alimentazione animale per la trasformazione in alimenti destinati all’uomo e che un’altra parte viene destinata alla produzione di energia. Il che, evidentemente, genera altri impatti decisivi e negativi, come ad esempio il land grabbing, l’accaparramento di terra nei paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, destinata a produrre cibo o energia per gli accaparratori (si vedano a questo proposito i rapporti annuali “I padroni della terra” molto documentati e curati dal Focsiv, Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario).

INSOMMA, GIÀ SOLO INTERVENENDO su questi elementi con politiche pubbliche locali e globali ad hoc, più volte richiamate anche su queste colonne – cosa che doveva essere fatta prima, ma non è mai troppo tardi come si dice – si potrebbe ottenere una qualche mitigazione degli squilibri, peraltro con importanti effetti indiretti anche sulle diete alimentari, i costi della salute e gli impatti sull’ambiente. Come dire: dalla crisi viene un’opportunità di cambiamento, quantomai necessario.

* Professore di Politica agraria internazionale e comparata all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, direttore scientifico dell’Osservatorio Waste Watcher International/Campagna Spreco Zero