Cultura

Contro il lirismo, tra sublime e mondo

Contro il lirismo, tra sublime e mondo

Poesia I classici visti dalla prospettiva dell’intellettuale scomparso nel 1994

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 10 agosto 2024

«Quando ci si pone la questione se Dante conserva o no il suo mondo per noi dobbiamo chiederci l’inverso: in che misura il nostro mondo può essere, per dir così, dantizzato». A partire da questo discriminante taglio, nel giugno del 1991, Franco Fortini passava in rassegna, in un memorabile ciclo di conversazioni radiofoniche con Donatello Santarone, intitolato Le rose dell’abisso, alcuni fra i maggiori classici della letteratura italiana. Dante, Tasso, Leopardi, Manzoni, Pascoli.

LEGGENDO IL VOLUME che raccoglie questi saggi dialogati, emerge come siano due i denominatori comuni, che li costituiscono nel profondo e li amalgamano. Il primo è quello di una solida prospettiva interculturale, su cui anche Santarone si sofferma nella sua puntuale prefazione. Fortini infatti ha praticato di continuo «il passaggio, il transito da una cultura all’altra con tutto il suo carico di contaminazione, di contraddizione». Si pensi allora alle pagine sulla decisiva cultura averroista di Dante o all’interpretazione del suo Ulisse come specchio della dialettica fra ortodossia e dissidenza religiosa e intellettuale. Nella Gerusalemme Liberata di Tasso la contrapposizione fra uniforme cristiano e multiforme pagano rinvia ad un preciso contesto storico, quello del secondo Cinquecento, percorso da aspre lotte fra diverse confessioni religiose e da poderosi conflitti bellici con «l’altro».

Passando a Manzoni, si può evidenziare il lavoro di Fortini sulle varianti della prima Pentecoste del 1819, in cui l’autore aveva riversato in modo esplicito inquietudini politiche post-rivoluzionarie, fra potenti istanze di liberazione nazionale e rivendicazioni addirittura antischiavistiche. In questa chiave Fortini appunta lo sguardo sul manzoniano «bellico / coltivator d’Haiti», ovvero sul contadino antillano «armato di machete, che somigliava molto ai contadini dell’anno secondo della Repubblica francese».

L’altro corno metodologico dell’accostamento ai classici messo in atto da Fortini è costituito da una pervicace prospettiva antilirica, epidermicamente allergica alle altezze del «sublime». Già alla fine degli anni Cinquanta, in una lettera a Cesare Cases in cui parlava dei propri versi, F. aveva proclamato «una poetica dell’‘impurità’». In queste letture sui classici italiani si può cogliere dunque una netta predilezione per una poesia che esibisca un passo narrativo disteso e prosastico.

Facciamo qualche esempio, partendo da Dante. Alle Rime, che in un determinato milieu storico-culturale, quello dell’ermetismo fiorentino degli anni Trenta, in cui peraltro lo stesso Fortini si era formato, furono considerate, insieme alla Vita nova, il nucleo poetico più nutriente di Dante, Fortini qui antepone, e per la verità fin dagli anni Quaranta, la Divina commedia, con i suoisbalzi stilistici e di contenuto. Della Liberata di Tasso si evidenzia con decisione l’aspetto storico-narrativo, al punto da parlare esplicitamente di «romanzo». E se ne riconosce, fin dall’incipit imperniato sulle ossimoriche «armi pietose», il temerario, siamo pur in tempi controriformistici, dialogo con un libro politico quant’altri mai come il Principe di Machiavelli – nello specifico con il suo ultimo capitolo.

ANCHE LEOPARDI si smarca dai luoghi comuni più inveterati delle interpretazioni liricizzanti e ovattate. Innanzitutto Fortini sottolinea il carattere fortemente sperimentale e centrifugo del libro dei Canti. Leopardi diventa dunque il grande poeta antisublime della contraddizione. La sua poesia includerà sì un rilevante spessore filosofico, ma senza esaurirsi in esso, cioè senza mai smettere di essere poesia. «La contraddizione è nel testo». È infatti la forma poetica in quanto tale che «sposta, spiazza qualsiasi livello del contenuto». Per suffragare la sua tesi, Fortini analizza ancora una volta una variante, stavolta del Sabato del villaggio. In una prima stesura si poteva apprezzare la cantabilità di «alla luce del vespro e della luna», con la sua squisita melodia, ottenuta grazie a precisi echi fonici e ritmici. Il verso sarà sostituito in seguito dal ben più prosaico «al biancheggiar della recente luna», in sé molto meno sublime, ma decisamente più consonante col contesto in cui si trova, ovvero una lunga strofa «discorsiva e narrativa piena di punti di riferimento temporali e spaziali». E continuando su questo solco acutamente tracciato da Fortini si potrebbe aggiungere che la notazione temporale espressa con il verbo all’infinito non solo si sposa perfettamente con la poetica leopardiana dell’indeterminato, ma fa da simmetrico pendant con «in sul calar del sole» di v. 2.

In queste annotazioni su un Leopardi antilirico e «impuro», Fortini si dimostra tra l’altro coerente con alcune linee interpretative precocemente espresse in un suo antico scritto uscito nel 1946 sul Politecnico e intitolato «La leggenda di Recanati»: «Ma Leopardi seppe pur strapparsi a quella tentazione raziocinando intorno alle piaghe sue e a quelle comuni; seppe scriver dei versi brutti; seppe essere contraddittorio; non puro». Qui è notare come Fortini spieghi la vera posta in gioco di questa impurità poetica, legandola alla capacità di facilitare il processo d’incarnazione simbolica degli uomini nella poesia, e viceversa: «L’incosciente volontà di gioia di Leopardi esige l’incarnazione dentro gli uomini e nel mondo; porta significazione».

Le rose dell’abisso è un libro che andrebbe letto con le orecchie. Rimanda infatti di continuo al suo originario contesto di fruizione radiofonica, nel quale è possibile verificare come le letture «ad alta voce» compiute da F. siano vere e proprie esecuzioni musicali, coerenti con le linee interpretative antiliriche contestualmente sviluppate dal commento.

GIOVA MOLTO INFINE alla peculiarissima ricchezza del volume il puntuale confronto, che prende corpo nel dialogo con Santarone, con testi poetici dello stesso Fortini. Fra pudore, imbarazzo e sferzante autoironia, il dialogo con i classici italiani è vissuto da Fortini come componente indelebile, intus et in cute. Si pensi solo a quel luminoso passaggio in cui si collegano delle varianti, stavolta dell’Adelchi di Manzoni, di nuovo al finale del Principe di Machiavelli. E soprattutto a questi tre versi del celebre secondo coro, poi cancellati dall’autore per paura della censura, che a Fortini paiono «impressionanti, di sarcasmo e di disperazione politica»: «Stringetevi cheti l’oppresso all’oppresso / di vostre speranze parlate sommesso / dormite fra sogni giocondi d’error». A chi voglia leggerli con l’orecchio del poi possono infatti rammentare due luoghi diversi e distanti tra loro, ma entrambi capitali, della produzione poetica fortiniana: Traducendo Brecht e Stanotte. «…Gli oppressi / sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni…»; e poi «Chissà dove ora si gode, dove dorme, dove sogna / di mordere…».

F. ha parlato una volta di «fantasmi di scrittura letteraria, frantumi di archivio storico», che si agitavano nella sua memoria poetica. Un pascaliano buon uso di questi ruderi è quanto egli ha provato strenuamente a fare per tutta la sua esistenza.

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