Continuità e innovazione nell’opus tsukamotiana: Nobi Fire on the Plane
Cinema Mette in discussione l’idea che il cinema sia composto da immagini in movimento, non concepisce né l’inquadratura né la sequenza. Per lui «il fotogramma non si muove»
Cinema Mette in discussione l’idea che il cinema sia composto da immagini in movimento, non concepisce né l’inquadratura né la sequenza. Per lui «il fotogramma non si muove»
Nobi, il nuovo film di Tsukamoto, che per certi suoi aspetti risulta essere un’ opera ricca di elementi innovativi, per altri versi felicemente riconferma alcuni dei tratti salienti della poetica di questo regista, che ancora una volta ribadisce la coerenza interna di un discorso filmico e stilistico che dura ormai da quasi trent’anni.
In evidente continuità con quanto espresso precedentemente ritroviamo quel modus operandi caratteristico che regola lo stato della combinazioni audiovisive di Tsukamoto, ma che qui raggiunge un’evidenza cristallina mai sperimentata.
A proposito di Kotoko avevo parlato di trasduzione stilistica1 (o cinetica) degli stati emozionali, intendendo indicare quell’atteggiamento rappresentazionale che spinge il regista a non limitarsi a “mettere in immagine” i fatti che intende raccontare, ma a costruire complessi percettivi, destabilizzanti, il cui grado di manipolazione espressiva (scuotimenti del piano del visivo, iperboliche trasformazioni del sonoro ecc.) serve a suscitare negli spettatori stati emozionali analoghi a quelli che esperiscono i personaggi, con i quali condividono udito e visone.
Il delirio visivo-uditivo che con tanta efficacia ci aveva restituito i deragliamenti psichici della giovane Kotoko si ritrova, ingigantito e potenziato, nelle devastanti scene di battaglia di questo Nobi.
Ma se nel film del 2011 le peripezie dell’obiettivo e del sonoro ci fornivano gli elementi per una com-partecipazione al personaggio che era essenzialmente di tipo psichico, qui la componente fisica domina incontrastata.
Non condividiamo solo il panico del soldato Tamura, Tsukamoto ci getta insieme a lui direttamente sul campo di battaglia, siamo lì con tutto il corpo a subire esplosioni e squassamenti, a impastarci di fango e orrori.
Tsukamoto abiura senza mezzi termini la resa plastica del gesto guerresco, nega l’estetica del combattimento eroico caro a tanto cinema di argomento bellico e costruisce, anzi de-costruisce, una serie di violentissimi attacchi alle abitudini percettive del suo pubblico, costringendolo a una forzata solidarietà sensoriale, prima ancora che emotiva, con il povero soldato Tamura, totalmente disorientato, dolorosamente assordato dai fragori delle esplosioni, accecato da bagliori e vampe, incapacitato a ricostruire una benchè minima coerenza di un piano spaziale letteralmente spezzato dai mille moti convulsivi della shaky cam, inorridito dal profondersi di viscere e schifato dal denso sangue.
Questa guerra non conosce eroi né coraggio, solo l’indicible (ma mostrabile) panico e lo sconvolgimento totale dei sensi di uomini mutilati, falciati, esplosi.
Se poi ci spostiamo per un attimo sul piano tematico, quello della guerra, vicenda collettiva, accadimento plurale, rappresenta un qualcosa di piuttosto insolito per un regista che abitualmente si serve della narrazione di casi individuali per poi giungere a considerazioni di più ampio respiro, tali da riguardare il genere umano in quanto tale. Certo, è solo la personale vicenda di Tamura, ad essere raccontata “in prima persona”, in regime di narrazione soggettiva, tuttavia, è facile intuire che il protagonista di questo film avrebbe potuto essere uno qualunque dei soldati che contemporaneamente a lui vivono quelle esperienze, che subiscono le medesime trasformazioni interiori, che vedono e sentono quegli stessi orrori.
L’altro aspetto di continuità rispetto al discorso complessivo dipanato da Tsukamoto riguarda la violenza della guerra, il suo essere la forma più estrema e totalizzante di violenza concepibile dalla societas humana. Ildiscorso sulla violenza nella società è stato iniziato da Tsukamoto molti film fa e quella che ritroviamo in Nobi è l’apoteosi e l’epifania priva di remore di quella stessa volontà di sopraffazione e distruzione reciproca che patologizzava, per necessità difensiva, l’istinto materno di Kotoko sino a spingerla verso l’infanticidio, o che ha armato il corpo dell’ultimo Tetsuo e la mano di Goda, il protagonista di Bullet Ballet. La differenza sta nel fatto che in condizione di pace (apparente) la società tace questa violenza, la nasconde, mentre in guerra cadono quelle remore dovute “all’apparenza sociale”, svanisce quella coltre di presunta normalità che solo lo sguardo “speciale” di Kotoko sapeva dissipare.
Ritroviamo un’altro aspetto di continuità con il resto dell’opus tsukamotiana nel fatto che il soldato Tamura vada incontro a una qualche forma di cambiamento, in questo caso a una mutazione regressiva del proprio interiore, che si accompagna alla totale, anche se temporanea, perdita della ragione umanamente intesa, arrivando a varcare la soglia della più brutale animalità. Le storie di Tsukamoto hanno spesso avuto a che fare con il concetto di cambiamento e raccontato percorsi di mutazione interiore o esteriore.
Cambiano, palesemente, i protagonisti dei vari Tetsuo, nel corpo, innanzitutto, ma anche nell’anima, mutano la propria condizione interiore tanto Goda (e con lui l’efebica Chisato) in Bullet Ballet e lo Tsuda di Tokyo Fist (che riconfigura completamente anche la fisionomia del proprio corpo attraverso un processo di espansione muscolare), tenta la via del riassetto interiore anche la bella Kotoko, che tutttavia fallisce, diversamente dalla Rinko di A Snake Of June la quale riuscirà a trasformarsi e ad aprirsi alla vitalità dell’amore.
Nel flashback finale, in più, non si racconta, ma si mostra negli esiti, il ritorno di questo soldato a una condizione di pacificata normalità, alla quale accede, evidentemente, a guerra finita (tra l’altro, da un punto di vista strutturale, quest’idea del viaggio doppio, dell’andata verso la mutazione e del ritorno verso la normalità almeno apparente credo possa farsi risalire al terzo episodio della saga dei Tetsuo, The Bullet Man)
Analogamente a quanto avveniva in opere precedenti, poi, il percorso mutativo del protagonista viene innescato da particolari condizioni contestuali, da uno specifico ambiente, in questo caso “la guerra”, che è anche l’oggetto principale della riflessione tsukamotiana. La metropoli, il portato implicito di violenza e coercizioni che al suo interno regola i rapporti tra individui, le cadute inevitabili della ragione: è stato questo, sino a ora, il campo di “studio” principale dei film di Tsukamoto. Nobi, invece, scandaglia le atrocità psicologiche e corporali cui vengono sottoposti i soldati durante un conflitto armato, l’abissale profondità di quella dis-ragione, che qui viene messa a nudo con l’intento più volte dichiarato dal regista di spingere i governanti del suo e di altri paesi a riflettere su scelte e orientamenti politici sempre più militarizzati, .
Resta quell’ambiguità di fondo che riguarda anche altre opere per cui non è chiaro se quello del contesto sia un potere meramente trasformativo o abbia, invece, natura maieutica: i devastanti ritmi imposti dal sistema iper produttivista in Tetsuo trans-formano il mite impiegato nel monstrum tecnomutativo che conosciamo, cioè lo fanno diventare qualcosa che prima non era, o semplicemente portano allo scoperto quelle pulsioni violente che in lui erano già presenti, ma in forma latente? La debordante violenza proveniente dall’Urban environment che spinge la giovane madre Kotoko ad attaccare con ferocia “la metà cattiva”delle persone la ha costretta a diventare altro da sè, una persona che prima non era, o soltanto permette alla sua natura di emergere nella sua forma più pura? E allora questi mostruosi soldati che si aggirano per la giungla a caccia di carne umana, sono uomini che la guerra ha dis-umanizzato, rendendoli simili ai feroci cani che Tamura teme, o sono uomini che, liberati da ogni sorta di vincolo sociale, manifestano l’essenza cannibalica della nostra specie in totale quanto disperata libertà?
Il finale del film lascia la questione aperta. Il flash-forward conclusivo ci Mostra Tamura, sopravvissuto alla guerra e alla follia, in un rassicurante ambiente domestico, dove tutto sembra tranquillo. Ma di notte, quando resta solo, ritorna di fronte agli avvampanti roghi di guerra che così sinistramente illuminavano la pianura, al loro stordente roboare gonfio di frequenze basse. Tsukamoto non ci dice se si tratta di un semplice ritornare della mente a eventi e a una condizione esistenziale conclusi nel passato, un innocuo anche se doloroso ricordo, o se invece siano il segno di uno spaventevole istinto, che scoperto una volta resterà sempre vivo in Tamura (in noi), implicito nella nostra essenza di esseri umani, qualcosa che solo può essere taciuto o nascosto, ma mai eliminato.
Mi pare interessante riflettere anche sul fatto che, insieme all’inaudita violenza contestuale, a scatenare l’animalità dei soldati cannibali sia la fame disperante, il bisogno primordiale di procurarsi cibo. Anzi, in certa misura, l’intero film è anche una analisi di ciò che accade quando si spingono gli esseri umani a dover soddisfare questo bisogno senza il supporto di strutture sociali, di soluzioni razionalizzate e condivise. Abbandonati al puro istinto di sopravvivenza e dopo aver percorso a ritroso tutti i livelli della scala alimentare sino all’esaurimento totale di ogni altra possibile fonte di sostentamento, questi uomini si trasformano in predatori di sè stessi, divoratori dei propri simili.
Ci troviamo in qualche modo sul versante opposto di un’attenzione di tipo sociologico che, anche se implicitamente, è stata spesso presente nell’ opus tsukamotiana.
Le opere nelle quali si analizzano gli effetti di alienazione che i soggetti inurbati sperimentano in contesto metro-megalo-politano, se osservate dal punto di vista del sistema economico che le mutua, sono riflessioni sulle conseguenze di livello personale che produce il sistema super-prestazionista e produttivista dell’economia post industriale. E’ questa modalità di produzione ipertecnologica, con la sua iper-struttura razionalizzata al millimetro a imporre ritmi e livelli prestazionali tali da trasformare, metaforicamente, ma non solo, il lavoratore medio di Tetsuo The Iron Man in una macchina, o meglio in un uomo macchina e a spingere la coppia all’inebetimento catodico o all’incomunicabilità, come capita a Tsuda e Hizuru di Tokyo fist o a Rinko e Shigehiko in A Snake Of June, è l’impossibilità di relazione che questo sistema implica a generare la marginalità di Chisato in Bullet Ballet, che risponde con la pulsione verso la morte e che genera la risposta violenta in Kotoko.
Una riflessione in continuità, quella di Tsukamoto, non palesata e probabilmente non del tutto consapevole per l’artista, ma evidente per l’esegeta, che ne osserva l’opera dall’esterno e con distacco. Personaggi trasformati in mostri (il cui etimo latino si ravvisa nel verbo monere, avvertire, avvisare) moniti viventi in carne (e metallo) di ciò che l’uomo può diventare quando sottoposto all’azione degli eccessi di struttura di un sistema della produttività che diventa ipertrofico, da un lato, e ancora mostri, uomini-belva come moniti regressivi di ciò che l’uomo può ritornare ad essere nella vacanza totale di quella stessa struttura, dall’altro.
Un’altra differenza piuttosto appariscente con le opere precedenti, tutte ambientate in contesto metropolitano sembra essere il fatto che Tamura e gli altri personaggi di Nobi siano inseriti in un ambiente del tutto naturale (la sola eccezione che ricordo è il luogo paradisiaco e irreale in cui cui Hiroshi rincontrava la sua amata e defunta Ryôko nelle scene oniriche di Vital).
«Prova a immaginare un uomo in una piccola barca: prima questa barca stava galleggiando in una “città-giungla”, una giunga fatta di cemento. Ora invece sta galleggiando all’esterno, tra la natura, ma si trova pur sempre in una piccola barca.[…]La giungla non è uno scenario ostile o un’entità maligna, è semplicemente la natura che circonda l’essere umano.2»
E’ Tsukamoto stesso, in una intervista pubblicata dalla rivista Uzak, a chiarirci il senso di questa insolita presenza.
Apoteosi del rigoglio, celebrazione vitalistica e proliferante della natura che si afferma come valore positivo, la foresta è una sorta di “onnipresenza accerchiante” e del tutto indifferente alle azioni minime (rispetto all’entità della natura stessa) ma enormi nella loro atrocità (se parametrate su una scala di valori umani) che gli uomini compiono .
A differenza della megalopoli, che era la radice stessa del male, il luogo di scaturigine di tutto ciò che di patologico poteva ravvisarsi nei personaggi tsukamotiani, la foresta non sembra maligna di per sè e, come giustamente nota Nicola Curzio nell’intervista succitata, nella sua messa in rappresentazione mancano, tutti quegli elementi, sciami di zanzare, fanghi e paludi, l’umidità e il caldo soffocanti, che in tanti film a tema bellico la trasformavano nel principale nemico dei soldati (sopratutto americani).
Questo debordante contesto naturale si limita a circondare i soldati, ma nella sua moltiplicatorietà-trionfalità vitalistica diventa una sorta di esteso labirinto fatto di foglie verdissime, steli intricati e frondosi alberi che tutto ricopre e nasconde, ogni possibile via di fuga, amici e nemici.
Non sorprende poi che proprio questo elemento del vegetale concorra a creare l’andamento cromatico dell’opera intera, poichè spesso Tsukamoto ha affidato a un qualche elemento concreto, fisico, ma dotato di valore simbolico nella generale semiosi del film, la funzione di determinante coloristica primaria. In A Snake Of June l’elemento liquido declina sensualistici viraggi al blu, In Tetsuo The iron Man la dominante è quella acromatica e raffreddante del metallo, mentre in Tetsuo 2 sono il vetro riflettente e asettico dei grattacieli e il metallo fuso della fucina a tingere le inquadrature di blu gelidi e arancioni-rossi incandescenti, qui, in Nobi sono il verde e il suo complemetare, il rosso del fuoco (quello del titolo) e del sangue, a dirigere la danza dei colori. Una dimensione coloristica che in qualche modo recupera per via simbolica istanze di tipo semantico dotate di valore strutturante per l’intera costruzione filmica, una dimensione in cui l’istanza vitalistica del verde della natura si contrappone al rosso mortifero del sangue e del fuoco distruttore, che tuttavia sono in rapporto di ineliminabile complementarità.
Tsukamoto ci regala inquadrature dalla forza cromatica fauvista, immense campiture di verde abbacinante in cui le chiazze marrone scuro dei corpi dei soldati ancora in vita, incrostati di sangue disseccato, miseria e fango bruno, formano come strappi, chiazze oscene e tumorali che strisciano, non camminano, nel fitto vegetale, mentre i corpi dilanaiati dei già morti sembrano ematici fiori scarlatti, papaveri fragili e osceni. Gli sfondi neri delle notti di battaglia si aprono di sciabolate rosso fiamma, di arancioni baluginanti e mortali che levano lapilli al cielo scuro e scie di miasmi incendiati. Bellissimi i primi piani in cui i riflessi dei roghi tingono il volto terrorizzato di Tamura: il rosso è il nuovo colore della paura.
1http://www.uzak.it/lo-stato-delle-cose/503-inside-kotoko-analisi-audio-visiva.html
2Uzak-Lo Stato Delle Cose, n°16\17, Della Guerra, intervista a Shin’Ya Tsukamoto, a cura di Nicola Curzio:
http://www.uzak.it/lo-stato-delle-cose/713-intervista-a-tsukamoto.html
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