Il premier si riprende la corona, resta l’incognita dei viceré
La corte di Conte Questa mattina al Quirinale per il nuovo incarico, stretto tra Rousseau e il Nazareno
La corte di Conte Questa mattina al Quirinale per il nuovo incarico, stretto tra Rousseau e il Nazareno
In alto i calici. Il capo dello Stato tira il primo vero sospiro di sollievo dall’inizio della crisi. O meglio lo tirerà stamattina alle 9.30, quando riceverà Giuseppe Conte per conferirgli l’incarico. Non lo ha convocato ieri sera solo perché, avendo in mente un colloquio approfondito, ha preferito rinviare dopo una giornata estenuante. Ma lo sblocco che il Colle attendeva è cosa fatta. Affidare l’incarico non significa che la crisi sia risolta ma non è un mistero che Mattarella ritenesse questo passaggio fondamentale. D’ora in poi sarà in campo una figura delegata a superare gli scogli sui quali la trattativa tra M5S e Pd si è incagliata più volte e lo stesso presidente potrà intervenire, pur con la dovuta e ormai proverbiale discrezione, se del caso.
ANCORA IERI MATTINA l’esito della giornata chiave restava in bilico. Due gli ostacoli, uno di prima grandezza, la richiesta del vicepremierato da parte di Luigi Di Maio, l’altro, cioè la decisione di sottoporre il giudizio definitivo sul governo al voto della piattaforma Rousseau, più appariscente ma in realtà meno temibile.
Il punto critico del ruolo di Di Maio non è stato superato. Dovrà provvedere Conte. I 5S fanno muro. «I veti su Di Maio sono veti su di noi» va giù duro il capo dei deputati D’Uva, che pure è tra i più favorevoli all’accordo. Lo stesso Di Maio si lascia sfuggire un commento inviperito: «Invece che alle soluzioni pensano solo a colpire me». Ma Zingaretti e Orlando sono tassativi: «Non si può entrare in un governo in cui il premier e uno dei vicepremier sono espressi dalla stessa forza politica». Il punto è decisivo, spiega Orlando, perché ne va della struttura del governo, della sua «discontinuità» con l’esecutivo precedente. Deve essere chiaro che Giuseppe Conte è espressione dell’M5S, non frutto di una scelta condivisa. E’ lui pertanto e non Di Maio il capo della delegazione pentastellata.
Zingaretti rincara subito dopo la consultazione, chiarendo che il Pd ha «accettato la proposta dell’M5S di indicare il premier, in quanto partito di maggioranza relativa». Di Maio, scuro in volto, replica poco dopo dagli stessi microfoni, ricordando che la Lega «lo aveva proposto come premier». Lui «ringrazia con sincerità» ma ha declinato. Insomma, ci manca solo che, dopo il sacrificio, gli chiedano anche di accontentarsi di un ministero (la Difesa ma potrebbe essere lui stesso a optare per il Lavoro).
CONTE NON INTENDE scaricare il suo ex vice. Già ieri faceva circolare l’intenzione di nominare due vicepremier, uno per partito, oppure di rinunciare ai vice. Sarebbe quest’ultima l’ipotesi di mediazione, accettata dal Pd ma non ancora dal diretto interessato. Poi a complicare le cose ci si è messo Renzi, che invece non è affatto ostile a concedere a Di Maio quel che chiede, anche perché così affibbierebbe un’altra mazzata all’immagine di Zingaretti, costretto a cedere per l’ennesima volta. Ma soprattutto ci si è messo Beppe Grillo lanciando dal suo blog una vera e propria bomba, con la richiesta rivolta ai suoi di rinunciare agli incarichi ministeriali a favore dei tecnici, accontentandosi dei sottosegretariati. E’ quasi una scomunica e il fondatore non lo nasconde: «Un po’ di poltronofilia c’è». Al telefono con Di Maio Grillo avrebbe poi chiarito che il suo era «un paradosso». Ma la mazzata resta pesante.
IL SECONDO ORDIGNO esplosivo è il voto della piattaforma. I parlamentari, pronti a tutto pur di difendere accordo e posto di lavoro, sono in rivolta. Per la prima volta piovono tweet che arrivano addirittura a denunciare la scelta di affidare una decisione di tanto momento a «un’azienda privata senza criteri di trasparenza». Parole che appena pochi mesi fa sarebbero suonate come una bestemmia. Conte però si schiera con il referendum. Il Quirinale disinnesca la bomba sin dal mattino, prima con un comunicato in cui si chiarisce che il presidente terrà conto solo di quel che verrà detto nel colloquio con lui nel pomeriggio, poi facendo pervenire ai 5S un’indicazione precisa: nessun problema se diranno che il Movimento deciderà sull’esito del lavoro di Conte nei prossimi giorni con le sue proprie istituzioni, poco importa se Direzione o Piattaforma. Ma se invece la delegazione 5S dovesse affermare che l’indicazione di Conte o la scelta di provare a dar vita a un governo col Pd dipendono dal voto della piattaforma, allora il rischio dello scioglimento immediato delle Camere ci sarebbe. I 5S capiscono l’antifona e si comportano di conseguenza. Restano nello studio del presidente per pochi minuti. Non accennano quasi al referendum.
VIA LIBERA DUNQUE ma nessuno al Quirinale si illude che le cose saranno facili. L’opposizione della Lega e di FdI sarà durissima. Salvini non ha lasciato dubbi, denunciando una sorta di congiura internazionale e affermando che la sola cosa che i partiti della nuova maggioranza hanno in comune «è l’odio per la Lega e per Salvini». Ma il vero punto debole è che Zingaretti e Di Maio parlano linguaggi apparentemente inconciliabili. Il primo esalta la discontinuità: «Non c’è nessuna staffetta, o testimone da raccogliere. C’è una nuova sfida da cominciare». Il leader dei 5S invece rivendica per intero l’esperienza passata. Cita punto per punto le cose lasciate in sospeso, senza dimenticare l’autonomia regionale. Esalta il buon lavoro realizzato con una Lega di cui ha visibilmente già nostalgia. Non si tratta solo di parole. Già nei prossimi giorni dovranno infatti essere fatte scelte concrete, prima di tutto sull’immigrazione, e lì non sarà possibile coniugare la continuità di Di Maio con il «governo di svolta» di Zingaretti.
UN GOVERNO CHE NASCE segnato da una simile contrapposizione e sostenuto da due partiti lacerati dalla divisione interna in tempi normali sarebbe visto dai mercati, se non con sospetto, almeno con prudenza. Stavolta invece il tasso dei Btp decennali raggiunge il minimo storico. Significa che il premier di un governo senza più Lega all’interno può contare sul sostegno pieno dell’Europa. Non è un elemento secondario.
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