Oggi alle 14.45, salvo ripensamenti, il M5S di Conte si produrrà in un esercizio estremo di equilibrismo: voterà la fiducia al governo sul dl Aiuti, poi però non approverà lo stesso provvedimento e si asterrà. I dorotei avrebbero storto il naso: «Non sarà un po’ troppo?».

Le situazioni a rischio di crisi possono essere drammatiche. Però possono essere anche farsesche e l’eterna tendenza all’ambiguità dei politici italiani, connaturata in Conte mentre Draghi sta faticosamente imparando a farla propria, piega l’atteso colloquio tra il premier e il suo predecessore verso la plateale presa in giro. Il sospirato colloquio sarebbe previsto per il pomeriggio, ma senza lo sblocco tra i duellanti non può riprendere la discussione sul decreto Aiuti nell’aula di Montecitorio. Alla fine ci si accorda sulle 12. Conte si presenta con una lettera che a prenderla sul serio ci si dovrebbe chiedere cosa sia rimasto a fare sinora nel governo. «Abbiamo subìto attacchi pregiudiziali, mancanze di rispetto, invettive intese a distruggere la nostra stessa esistenza». Quanto a consenso è andata peggio: «Il processo politico e la collocazione nel governo hanno pesato sul nostro elettorato. Lo hanno sfibrato ed eroso».

DOPO AVER TANTO subìto in nome del classico «senso di responsabilità», i 5S sono stanchi: «Pretendiamo adesso un segnale di forte discontinuità». I segnali reclamati per la verità sono parecchi e, sempre a prenderli sul serio, implicherebbero davvero una sterzata drastica da parte del commissario di palazzo Chigi: fine degli attacchi al Reddito di cittadinanza, sostegni strutturali e non una tantum per fronteggiare la crisi energetica, taglio del cuneo fiscale, accelerazione sul passaggio alle rinnovabili, Superbonus al 110%, risoluzione dei problemi sulla cessione del credito, rateizzazione delle cartelle fiscali ma senza condono. Quel che Conte fa capire lo dice a tutte lettere il suo fedelissimo Mario Turco. Quel che i 5 Stelle chiedono è proprio quel che Draghi non intende dare: uno scostamento di bilancio e di quelli corposi.

L’«avvocato del popolo» informa di attendere una risposta ma con la dovuta pazienza: «Draghi si è preso qualche giorno per decidere ed è giusto». Su armi e termovalorizzatore a Roma il fiammeggiante testo glissa. Su quei fronti Giuseppi si è già arreso.
L’interlocutore, istruito da un Sergio Mattarella quasi in veste di sparring partner, replica flautato, non chiude nessuna porta, si mostra possibilista. Nel concreto però sferra subito la mazzata di turno ordinando al ministro D’Incà di porre sul decreto Aiuti quella fiducia che i 5S chiedevano di evitare. Se Conte è «Quante gliene ho dette» Draghi è «Quante gliene ho date».

A PALAZZO CHIGI, in effetti, il colloquio viene smerciato come un successone. Nessuna richiesta ultimativa a cui dover rispondere, solo «condizioni per restare al governo». Condizioni che sono sì le bandiere identitarie del Movimento ma sono anche la linea dell’esecutivo: si configurano come in continuità con l’azione del governo, altro che svolta drastica. Comunque l’importante è che Conte non esce dallo stesso governo e anzi ha assicurato che continuerà a sostenerlo. Tutto il resto è chiacchiera. Conte, preso in contropiede, smentisce e corregge: «Non ho dato nessuna garanzia, non ci sono cambiali in bianco. Tutto dipenderà dalle risposte del governo che devono arrivare entro luglio». Perché qua nessuno è fesso e non c’è spazio per il giochino di dilazionare fino alla legge di bilancio, quando i giochi saranno chiusi.

LA LEGA, CHE DOVREBBE essere l’altra spina nel fianco di Draghi, vede Conte avvilupparsi nella sua eterna indecisione e si tranquillizza subito per lucrare sui guai dell’ex alleato. Giorgetti si lancia in un’appassionata difesa del governo, poi si chiude in una stanza con Salvini e i due escono serafici: «Avanti come si è deciso nel vertice di Milano». Più Conte fa il barricadero, più la Lega si riscopre partito d’ordine e, ovviamente, «responsabile».

LE DUE VERSIONI del medesimo colloquio offerte da Giuseppe Conte e da palazzo Chigi hanno in comune ben poco. Qual è dunque quella più vicina alla realtà? Quella di Mario Draghi. Lo dimostra la scelta sul voto di oggi. Sempre che i senatori permettano al loro leader di svicolare anche a palazzo Madama. Perché lì, la settimana prossima, il giochino del doppio voto non sarà possibile e per Giuseppe Conte non sarà facile convincere i suoi senatori a votare la fiducia.