Carcere, handicap, orto e frutteto

Intorno una corona di monti, il Terminillo col cappello candido, pascolo libero per vacche bianche e cornute. Su un tavolo di assi rustiche nell’aia, gustiamo formaggio caprino e vino rosso. Di fronte ho Matteo Amati, un pezzo di storia sociale dell’ultimo mezzo secolo, che qui sulle alture reatine da qualche lustro impegna la sua indole visionaria. Accanto a lui un fedele compagno di ventura, testa canuta e sguardo sorridente, Sandro Brugiotti. Qui sorge Consortium, cooperativa integrata sorta nel Duemila su 1.500 ettari di terreno demaniale abbandonato, una delle aree di proprietà pubblica censite in precedenza col sindacato e i movimenti di base, gli stessi che negli anni 70 con centinaia di braccianti e disoccupati occuparono terre inutilizzate in vari luoghi d’Italia e persino entro i confini della Capitale, facendone ricche esperienze tuttora floride (tipo Agricoltura Nuova, Cobragor…)

Siamo a Borgo Sala, evacuato nel dopoguerra dai contadini poveri in fuga verso le città e migliori condizioni di vita. Negli anni 90 Amati era assessore alla Regione Lazio, e spinse per indire bandi il cui scopo fosse il recupero delle terre incolte, valorizzato da ragioni sociali e produzioni qualificate. Lo stesso Matteo -quando lasciò l’attività istituzionale “ormai trasformata da patrimonio collettivo a interesse di pochi, per tornare alla mia vecchia passione del lavoro agricolo coi ragazzi in difficoltà”- consorziò aziende zootecniche, appassionati di colture boschive, persone disabili… e vinse il bando nel Reatino. Aggiunse nove ettari presi in affitto da un privato alle porte di Roma “per farvi orto e frutteto con ragazzi handicappati e minori carcerati”, più il terreno del monastero benedettino a Subiaco “ormai trascurato da religiosi troppo anziani e affidato a ex tossicodipendenti”.

Ecosistema ed aree verdi

L’idea che tutto sovrintende è rivitalizzare la campagna nel pensiero comune, fermentare un rapporto nuovo con la terra, fornire ai giovani ragioni materiali e culturali per radicarsi in essa. Non solo rispetto dell’ecosistema, allevamenti etici, coltivazioni biologiche, ma inversione della tendenza all’urbanizzazione eccessiva, all’abbandono di campi e pascoli, allo sfruttamento irresponsabile del territorio: nel 2018 sono spariti altri 5.400 ettari, negli ultimi trent’anni l’Italia ha perso il 28% delle sue aree agricole a favore di asfalto e cemento, impermeabilizzando il suolo e mettendo a rischio di frane e alluvioni il 91% dei comuni (dati Istat). Lo spirito di Matteo Amati vive nel solco tracciato da giganti d’una nuova gestione del territorio quali Pio La Torre o Antonio Cederna, e da sindaci evoluti quali Argan o Petroselli. “Ancora oggi abbiamo aree abbandonate -pure dentro le città- di cui le amministrazioni non si preoccupano; invece curare la terra è funzionale tanto a una produzione rispettosa dell’ambiente quanto a un rapporto costante coi cittadini, facendo concerti, spettacoli, mostre, convegni, fiere… e vendendo ai consumatori in filiera corta, senza intermediazioni speculative e dannose. Idee sacrosante che nelle politiche della Sinistra di governo avevano referenti sensibili nei decenni scorsi e che oggi sono rarefatte. Prendiamo Roma: ci sono venti aree agricole e l’ultimo piano regolatore della giunta Veltroni (poi confermato) contempla una cementificazione pressoché totale del suolo; è una follia, ci sono case vuote e si continua a costruire -peraltro senza servizi e infrastrutture- invece di recuperare l’esistente. Manca un progetto, una visione generale, non c’è programmazione e si vogliono accontentare i grandi costruttori, così la città muore, anche la Chiesa ha preferito allearsi ai palazzinari. Occorre invece vincolare e promuovere quelle aree, qualificare case e fabbriche abbandonate, non favorirne il degrado. Né mancano lodevoli esempi del recente passato, come negli anni 90 con la Regione che istituì parchi pubblici, sia pure dopo una lunga battaglia perché anche partiti di sinistra e sindacati stavano mutando pelle…”

I tempi della fiducia

Le cose sono mutate persino nei nomi: quando collaborava nella giunta Badaloni, l’assessorato di Amati era innovativamente deputato alla Qualità della Vita, non genericamente ai Servizi Sociali. Per Matteo l’approdo a responsabilità istituzionali veniva dopo trent’anni spesi in prima linea per l’emancipazione di tutti. Nato nel 1949, sin da piccolo fu educato in famiglia e in parrocchia “a uno degli aspetti più affascinanti della cultura cristiana e cattolica, farsi carico delle persone disagiate: non si può amare senza condividere diceva Luigi Di Liegro”. Le condizioni di lavoro dei cavatori di travertino gli fecero scoprire in adolescenza il mondo operaio, a 19 anni seguì le note vicende della fabbrica Apollon (Ugo Gregoretti ne fece un documentario), a venti decise di seguire il movimento non violento di Aldo Capitini e rifiutò il servizio militare, poi lasciò gli studi di ingegneria (il che gli costò la chiusura del rapporto paterno) e andò a vivere un’esperienza straordinaria fra i baraccati dell’Acquedotto Felice con don Roberto Sardelli, amico e sodale di don Milani. Alla quale seguirono esperienze simili per durezza (bracciante in Ciociaria), radicalità (cogli handicappati gravi nella comunità di Capodarco), impegno vittorioso: l’occupazione di terre incolte nell’Agro romano (1977), insieme a dirigenti politici e sindacali verso i quali “la fiducia a quei tempi era assoluta”. Sull’onda di quel movimento Amati prese la tessera comunista: “Allora -scrive Matteo nel suo libro Animali abbandonati in pascoli abusivi (Viella ed.)- il Pci promuoveva le figure provenienti dal mondo del lavoro, da fabbriche e campagne, praticando un concetto chiave di Giuseppe Di Vittorio”.

Alla ricerca dell’identità perduta

Negli anni 80 Amati accetta l’impegno istituzionale (mentre è anche direttore di Capodarco e presidente di Agricoltura Nuova) prima in ambito circoscrizionale, poi in Regione: “erano tempi in cui la migliore filosofia amministrativa privilegiava il fare, non l’annunciare come si usa oggi”, anni densi di fatti e leggi fortemente civili e popolari.

La Sinistra perdeva nel frattempo identità, lo iato tra vertice e base s’allargava, le dirigenze accarezzavano la metamorfosi, per finire asfaltate sulla via della dissoluzione ideale e del neoliberismo: “sapevo di non possedere anticorpi al cinismo, alla speculazione, al disinteresse per la cosa pubblica, preferii tornare alla mia vita abusiva”. Al canto del cigno di chi smarrisce la bussola, Matteo contrappone Consortium, ancora e sempre vitalizzata da persone in difficoltà, attività sociali e artigianali, stalle e allevamenti, campi scout, campi estivi con giovani da tutta Europa, osteria e strutture agrituristiche, cinema estivo sotto le stelle… pur tra i problemi generati dalla rarefazione di validi e attendibili interlocutori istituzionali.

È ora di lasciarci, s’è fatto tardi, il Sole declina e questa notte Sandro e Matteo partono per Norimberga, dove li attende una appetibile fiera del formaggio bio.