Considerazioni di un cinico ebreo romeno
Alias Domenica

Considerazioni di un cinico ebreo romeno

Sullo sfondo della Shoah Scritto in forma di diario, il romanzo «Da duemila anni», appena tradotto da Fazi, porta una introduzione di Eugène Ionescu voluta dallo stesso autore: scagliandosi contro l’«illusione assimilazionista» il testo rivela, tuttavia, il proprio antisemitismo
Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 25 febbraio 2018

Ci sono libri talmente radicati nell’epoca storica dalla quale provengono che risplendono di una luce straniante se letti col senno di poi. Inevitabile che la consapevolezza a posteriori di cos’è stata la Shoah si riverberi sulle pagine del pregevole romanzo datato 1934, Da duemila anni, in cui lo scrittore romeno di origini ebraiche Mihail Sebastian fissava con lucida disperazione il dilagare dell’odio antisemita in quella che – refrattario alle idee sioniste – si ostinava a considerare la propria patria. Allo stesso tempo, la prima parte di questo testo ampiamente autobiografico, ora proposto da Fazi nella fluente resa di Maria Luisa Lombardo (pp. 278, euro 17,00) infrange le nostre aspettative su cosa avrebbe dovuto pensare uno studente ebreo a Bucarest nel 1923, al culmine delle proteste contro la «spropositata presenza dell’elemento giudaico» nelle università.

Un emulo di Zarathustra

A emergere fin da subito è l’immagine contraddittoria di un giovane inquieto, sedotto dal vitalismo nietzschiano e poco incline a fraternizzare con i suoi compagni ebrei, con cui malgré soi è costretto a condividere botte e vessazioni pressoché quotidiane. Per un emulo di Zarathustra cosa potrebbe essere, infatti, più irritante del vittimismo autocompiaciuto con cui gli altri studenti enumerano alla sera i colpi ricevuti durante il giorno «quasi fossero punti al biliardo, caso mai l’avversario ne faccia due in più?» A questa malintesa solidarietà «razziale», fondata sulla passiva accettazione del proprio destino di popolo perseguitato «da duemila anni», il protagonista contrappone «la voluttà di esser soli in un mondo convinto che tu gli appartenga». Inchiodato dall’odio altrui a un’identità ebraica con cui fin da adolescente è entrato in conflitto, l’eroe di Sebastian si rifiuta di aderire allo stereotipo del perseguitato e sceglie una strada alternativa che non può che passare attraverso l’introspezione e l’isolamento: «Sono un albero fuggito dal bosco. Un albero che ha orgoglio, una specie di malattia che non uccide violentemente, bensì attacca con pazienza, dal basso, dalle radici…»

Leggendo questo romanzo concepito in forma di diario, denso di illuminazioni spesso folgoranti, torna talvolta alla mente il nichilismo del giovane Emil Cioran che, in quello stesso 1934, in Al culmine della disperazione, scriveva: «Voler vivere e morire in mezzo agli uomini è segno di grave debolezza». La consonanza non è casuale: all’inizio degli anni Trenta Sebastian (al secolo Iosif Mendel Hechter) frequentava infatti, insieme al coetaneo Mircea Eliade, a Eugène Ionesco e allo stesso Cioran, la cerchia raccolta intorno a Nae Ionescu, filosofo tristemente noto per la sua adesione al movimento fascista della Croce di Ferro. E sarà proprio Sebastian a sperimentare in prima persona gli effetti della deriva verso destra del maestro dapprima tanto ammirato. La prefazione scritta da Ionescu per Da duemila anni su insistenza dello stesso autore si rivelò in maniera del tutto inattesa un autentico libello antisemita, dove il pensatore si scagliava contro l’«illusione assimilazionista» che spingeva ebrei come Sebastian a credersi leali cittadini romeni. Peggio: negava addirittura a quest’ultimo l’appartenenza al genere umano, rammentandogli che non avrebbe potuto aspirare a essere altro che «un ebreo nato a Braila».

Benché declinato – com’è ovvio – in toni assai diversi rispetto alla sconvolgente invettiva di Ionescu, il tema dell’impossibilità di sbarazzarsi della propria origine riaffiora spesso anche nel romanzo, assumendo soprattutto nelle pagine iniziali i contorni di un vero e proprio cupio dissolvi: «Vorrei essere antisemita per cinque minuti e sentirmi un nemico che deve essere liquidato». Lacerato tra il malinconico scetticismo che la sua stirpe gli ha lasciato in eredità e il desiderio istintivo di aderire alla pienezza della vita, il protagonista trova un apparente equilibrio grazie agli studi di architettura, intrapresi su insistenza del carismatico professore di economia politica Ghita Blidaru – chiara controfigura di Nae Ionescu. Tuttavia, anche questa via di uscita è destinata a rivelarsi illusoria. Incapace di raggiungere quell’utopico ritorno alla terra cui aspira, l’alter ego di Sebastian sarà costretto a confrontarsi con le crescenti tensioni sociali che dilaniano la Romania all’inizio degli anni Trenta, a partire dallo stesso progetto in cui verrà coinvolto in quanto architetto: la trasformazione di un placido villaggio di viticultori in un centro di estrazione petrolifera.

Impossibilità di fuggire da sé

Nemmeno l’amore – qui adombrato nell’occasione mancata con l’inafferrabile Marjorie – riuscirà a salvare il protagonista dal suo spleen. Al ritorno in patria dopo un anno trascorso per lavoro a Parigi, non potrà che constatare come l’antisemitismo si sia ormai trasformato in un morbo che non risparmia neanche le persone più care. Il collega Martin Drontu gli intima di non mettersi anche lui «a fare l’ebreo»; l’amico ribelle Stefan Parlea giustifica cinicamente i pogrom come espediente per imprimere una scossa alla società e fomentare la rivoluzione; perfino il suo capo, l’architetto Mircea Vieru afferma di punto in bianco che i quasi due milioni di ebrei rumeni sono «troppi» – bisognerebbe eliminarne «alcune centinaia di migliaia».

Al tempo stesso ironico e disperato, Da duemila anni è un documento eccezionale sulla catastrofe che si stava allora addensando sull’Europa e, insieme, una parabola atemporale sull’impossibilità di sfuggire a se stessi.

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